Aumenta il numero di donne che lasciano il lavoro dopo la maternità, infatti i tassi di occupazione femminile sono più bassi della media Ue, così come le retribuzioni. La parità di genere appare un obiettivo difficile da raggiungere, ma ci sono sempre più imprese che ci provano, a conferma che aiutarle conviene. Negli ultimi mesi, sono molte le aziende ad aver ottenuto il certificato per la parità di genere, che consiste nel misurare la possibilità di crescita per le donne, la parità salariale a parità di mansioni, le politiche di gestione delle differenze di genere e la tutela della maternità. Stando a quanto riportato da Avvenire, questo improvviso aumento di certificazioni può essere riconducibile alla contestuale concessione di contributi alle aziende, in particolare a micro, piccole e medie imprese. Si tratta di una misura del Pnrr a titolarità del Dipartimento per le pari opportunità, che consente di fare richiesta dal 6 dicembre fino al 28 marzo. Ci sono 10 milioni di euro a disposizione, di cui 8 per le Pmi che andranno a coprire i costi della procedura di certificazione, ma pure l’assistenza tecnica e la preparazione a ottenerla.
La parità di genere è stata introdotta nel nostro ordinamento giuridico con la legge Gribaudo. Quindi dall’1 gennaio 2022 le imprese hanno potuto dotarsi del certificato che attesta le misure adottate dal datore di lavoro per ridurre il divario di genere nell’azienda. Questo impegno, presente nell’agenda Onu 2030 per lo sviluppo sostenibile, è un obiettivo europeo, inserito nel Pnrr italiano, che tramite un piano di attuazione prevede l’obbligo minimo di una relazione biennale sulla situazione aziendale in tema di parità di genere. A ciò si aggiunge il certificato per la parità di genere. Non è obbligatorio, ma offre l’accesso a diversi incentivi, come uno sgravio sui contributi che l’azienda versa a favore dei lavoratori. Infatti, è previsto un meccanismo di premialità: il vantaggio contributivo è dell’1%, oltre alla possibilità di ottenere un punteggio migliore in bandi per finanziamenti e appalti. Pertanto, le aziende hanno anche ragioni economiche per promuovere la parità di genere.
COME FUNZIONA IL CERTIFICATO PER LA PARITÀ DI GENERE
«Ogni azienda può richiedere la certificazione della parità di genere: verranno presi in considerazione per l’analisi diversi parametri, detti Kpi, in relazione a sei aree di valutazione: partendo da come sono scritti gli annunci di lavoro affinché non siano discriminatori e dal processo di selezione, passando all’aspetto retributivo per genere e alle politiche di welfare, in particolare quelle per la famiglia, e anche l’equa distribuzione tra i sessi nelle posizioni manageriali e direzionali», spiega Luca Furfaro, esperto di politiche del lavoro e welfare, all’Avvenire.
Le aree di valutazione sono: cultura e strategia, governance, processi human resources, equità remunerativa, opportunità di crescita e inclusione e infine, genitorialità e conciliazione vita-lavoro. «A ogni parametro è associato un punteggio e la loro misurazione deve raggiungere un minimo complessivo del 60%», aggiunge l’esperto. La certificazione ha validità triennale ed è monitorata ogni anno. Infatti, si possono verificare casi in cui l’azienda ottiene il certificato con alcune lacune, quindi vengono forniti correttivi per colmarle.
IL GAP UOMO-DONNA
I numeri, del resto, fotografano chiaramente la situazione. Le dimissioni delle mamme dal proprio impiego nei primi tre anni di vita del figlio sono state 61.391 nel 2022, con un aumento di oltre il 17% rispetto all’anno prima. Un fenomeno che, stando agli ultimi dati dell’Ispettorato nazionale del lavoro, riguarda nel 72% dei casi le donne che in 44mila hanno rinunciato al lavoro alla nascita del primo figlio. Anche il rapporto Inapp conferma il costante divario strutturale che riguarda l’occupazione femminile inferiore per quantità (solo il 40%), per ore lavorate, per tipologia di contratto e per compenso salariale.
Avvenire cita un dato in particolare: solo nel 2022 il 58,5% delle assunzioni agevolate delle donne è stato con un orario part-time contro il 32,2% degli uomini. In totale, le nuove assunzioni lo scorso anno hanno riguardato solo per il 46% lavoratrici donne. Con 68,2 punti su 100 il nostro Paese è al 13° posto tra i Paesi dell’Unione europea nell’indice calcolato sull’uguaglianza di genere. L’obiettivo è di contribuire a incrementare di 5 punti questa classifica elaborata dall’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (Eige), entro il 2026.