Nell’agosto del 1814 truppe inglesi sbarcarono nella baia di Chesapeake. Dopo tre giorni, sbaragliate le difese degli americani, i Royal marines giunsero a Washington. I soldati incendiarono la Casa Bianca e Capitol Hill. Quella fu l’ultima volta che uno straniero pose piede con la forza sul suolo americano. Quando nel dicembre del 1823, giusto duecento anni fa, il quinto presidente degli Stati Uniti James Monroe pronunciò il famoso discorso “L’America agli americani” il Paese era ancora giovane e stava salendo al vertice del mondo. Al Congresso si sentiva ancora odore di bruciato, e quelle parole erano un monito verso le mire espansionistiche degli europei. Ma da quelle parole è nata la “Dottrina Monroe”, un principio che da allora disciplina i rapporti geopolitici sulle sponde dell’Atlantico.
La Dottrina Monroe ha avuto diverse declinazioni. All’inizio fu solo interna al continente americano contro le intromissioni delle potenze europee. La prima applicazione della dottrina si vedrà nella guerra di secessione dove, dietro il paravento della lotta alla schiavitù, si vedranno gli Stati nordisti sradicare gli interessi inglesi, schiacciando militarmente i sudisti, che invece con gli inglesi lucravano molto, grazie al commercio dei prodotti agricoli schiavisti.
Il successivo piano di “Ricostruzione” vide l’occupazione militare del Sud e la sua normalizzazione, con grossi guadagni per i capitalisti dell’Unione. Il presidente Lincoln, che era invece per un piano di “pacificazione nazionale”, fu assassinato. Con la Prima guerra mondiale e poi con la Seconda la dottrina fu applicata anche di qua dell’Atlantico per “esportare” nel mondo la democrazia e lo stile di vita statunitense. In realtà per impedire l’unione, anche asimmetrica, della Germania con le sue capacità e della Russia con le sue risorse naturali. Raggiunse il suo apice nella questione dei missili russi a Cuba, sfiorando un guerra nucleare, e sembrò divenuta lettera morta dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Con la globalizzazione dettata dal dominio incontrastato sui mari degli Stati Uniti e il transito per via marittima del 90% delle merci la dottrina sembrava definitivamente dimenticata. Ma la storia non finisce mai.
Dopo circa un ventennio un nuovo impero terrestre, e non marino come quello americano, appare all’orizzonte a contendere il dominio del mondo e della globalizzazione come finora l’abbiamo intesa. La Russia imperiale di Putin stava stringendo rapporti sempre migliori e più stretti con l’Europa e principalmente con la Germania. Russi e tedeschi non si amano, ma il saldarsi di un asse eurasiatico anche forzato aveva già provocato l’ingresso degli USA nelle due guerre mondiali. Neanche russi e cinesi si amano, anzi; ma il prospettarsi della nuova Via della Seta, con le mire imperiali di Xi Jinping, infine hanno scosso la geopolitica degli statunitensi. Perché la nemesi di un impero marittimo è il formarsi di un impero globale terrestre, che renda pleonastico il dominio degli oceani, isolando un continente circondato d’acqua. Dopo l’attentato al gasdotto Nord Stream, che ha spezzato il legame energetico tra Russia e Germania, le sanzioni imposte a Mosca sull’esportazione di greggio hanno colpito anche gli USA.
Gli Stati Uniti infatti, nonostante abbiano negli ultimi anni raddoppiato la loro produzione di idrocarburi, sono ancora a debito di circa metà del loro fabbisogno di prodotti petroliferi, e le restrizioni alla produzione imposte dall’OPEC e Russia hanno peggiorato i costi dell’approvvigionamento. Con la Cina che preleva il petrolio russo, sotto embargo, a prezzi di saldo.
Ed ecco allora una nuova declinazione della dottrina: si allentano le sanzioni sul Venezuela e la morsa sulle sue istituzioni per ottenerne le risorse. Ma non basta, bisogna estrarre le risorse della regione contesa della Guyana Esequiba. Si permette quindi al Venezuela di avanzare delle richieste, che saranno mediate con un apposito negoziato. Staremo a vedere quali compagnie estrarranno il petrolio esequibo.
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