Il 1° settembre 1859 Richard Carrington vide con il suo telescopio un brillamento sul sole che poi gli scienziati classificarono non solo come la più grande tempesta geomagnetica mai osservata sulla nostra stella, ma anche come l’origine di un effetto che, nei giorni immediatamente precedenti e successivi al fatto, influì in modo importante sulla vita della Terra: le linee telegrafiche del pianeta furono interrotte per circa quattordici ore e un’aurora boreale arrivò ad essere visibile anche sui cieli di Roma. Perfino La Civiltà Cattolica, storica rivista dei gesuiti, si occupò dell’evento e ne riportò – stupita e allarmata – le conseguenze.
Il Solar Dynamic Observatory ha ripreso un analogo brillamento solare nei giorni scorsi, classificandolo con la sigla X2,8. Nel linguaggio della scienza significa qualcosa di molto intenso e di molto potente che connota il progressivo avvicinamento al picco dell’attività magnetica della stella, previsto tra la fine del 2024 e l’estate del 2025, e che rappresenta una delle fasi e dei cicli che caratterizzano il corpo celeste.
È possibile, dunque, che possa ripetersi qualcosa di simile all’evento di Carrington, o qualcosa di ben più grande, generando conseguenze importanti per la vita umana: l’interruzione di energia elettrica per intere nazioni, con conseguenze su ospedali e approvvigionamenti d’acqua, il crollo della rete internet, problemi non secondari nel settore delle comunicazioni e dei trasporti. Non si tratta di qualcosa di imminente o di inesorabile – le variabili in questo settore sono molte – ma è certamente qualcosa di possibile.
Ed è questo che fa impressione: come la categoria della possibilità, oggi, sia totalmente esclusa dal rapporto con la realtà. Eppure, sia la possibilità sia il mistero – due coordinate dirimenti per comprendere l’universo in cui siamo immersi – sono i veri a priori della vita. Quello che è decisivo nell’esistenza non è ciò che abita dentro di noi, le emozioni, i sentimenti, i pensieri, ma ciò che sta davanti a noi e che ci circonda. Viviamo una fase della storia in cui l’individualismo ha esasperato l’interiorità dei singoli: ciò che sembra determinare i rapporti sociali, familiari e interpersonali è la rabbia, il risentimento, la paura, l’ansia, il dolore. È come se la fragilità che siamo – e che è giusto conoscere – fosse più forte del mistero che ci abbraccia e che non conosciamo. Anche quantitativamente è un paradosso incredibile: sappiamo tantissimo di noi e pochissimo di quello che c’è fuori di noi, degli altri che ci circondano, del sistema che abitiamo. E, benché ciò che c’è al di là dei nostri occhi sia nettamente più sterminato e infinito di quello che ci troviamo addosso, pensiamo che siano i nostri riferimenti emotivi a definire la vita.
Ne emerge un uomo, un tipo di uomo, che si è liberato dal Mistero per finire in ostaggio di sé. Le grandi questioni etiche, educative e morali del nostro tempo sono tutte espressioni di questa esistenza in ostaggio che ci impedisce di essere curiosi e liberi verso il marito o la moglie, verso i figli o i genitori, verso gli amici o il tempo libero, verso il lavoro o la comunità: siamo così presi da noi, da quello che percepiamo di noi e degli altri, da aver perso interesse per la luna, per il sole, per la realtà della faccia che mi sta accanto e che forse potrebbe raccontarmi qualcosa che ancora non so, qualcosa che posso imparare, qualcosa che può risolvere molti dei nodi che mi porto appresso.
Non si tratta di essere superficiali o di ignorare l’interiorità: l’interiorità è da chiamare per nome, è da curare con la medicina di una consapevolezza costante e continua, ma non è possibile amare davvero quello che siamo – e vivere con verità il tempo in cui siamo – senza fare i conti con le stelle, senza fare i conti con quello lì che vive con me, con quella là che lavora con me, con quelli lì che incontro al mattino sul treno. Il motivo di questa necessità non risiede solo nella natura della ragione, che è esigenza di totalità – di fare i conti con tutto, ma ha a che fare col fatto che ciò che è nuovo, ciò che è diverso, ciò che ci cambia, non arriva mai da quello che sappiamo, da quello che controlliamo o che possediamo.
Il nuovo, il vero, il decisivo, entrano sempre nella nostra vita dove meno ce lo aspettiamo e quando meno ci pensiamo. Si esce da un lutto per una sorpresa, si supera un dolore per un’inattesa novità, si riceve il perdono per una Grazia, per quello che Camus chiamava “il bel giorno”. Come accadde all’Innominato, che uscì dall’intreccio di una vita grama e triste quando per la prima volta si accorse dell’allegria che aveva contagiato l’intero paese.
Nessuno di noi si sa salvare da solo, nessuno di noi esce con le proprie forze dal buco dove si è infilato. Tutti abbiamo bisogno che accada qualcosa. E questo qualcosa, in ultima istanza, non è neppure l’aiuto di un altro. Certamente l’altro c’è, ti supporta, ti sta vicino. Ma il suo obiettivo è che tu spalanchi la ragione e il cuore a Qualcosa che può succedere, a Qualcuno che deve venire. Nella vita ci facciamo compagnia, ci mettiamo insieme, non per proteggerci dalla storia o sistemarci nella realtà, ma per imparare a vedere le stelle, per scrutare il sole e le sue tempeste geomagnetiche, per percepire tutta la portata del Mistero nella misera trama della nostra quotidianità.
Quando uno vive così, può davvero succedere di tutto. Si può abitare nel paese più remoto della terra, essere infermi in un letto o trovarsi a vivere una lunga e difficile vecchiaia, e ritrovarsi custodi di un dono immenso, di qualcosa che cambia il mondo. Come duemila anni fa, come nella sperduta e dimenticata Nazareth. Dove si giocò il destino di tutti. Di quell’Amore che muove il Sole e le altre stelle.
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