Davide Oldani, chef e proprietario del D’O, ristorante a due stelle Michelin a Cornaredo, è uno dei cuochi più amati d’Italia. La sua era una famiglia umile. Il padre era un “operaio tessile. Era del 1925, si chiamava Bruno. Durante la guerra andava a lavorare in bicicletta, mi raccontava di Milano illuminata a giorno dai bombardamenti; io però non lo capivo, solo adesso realizzo che papà ha passato quello che noi vediamo in tv. Mia madre Luigia c’è ancora, ha 92 anni. Aveva un negozio di tessuti. Ed è stata la mia prima maestra di cucina. Per questo il più bel complimento che mi hanno fatto è associarmi al palato della mamma”. Eppure lo chef, da ragazzino era un calciatore: “Prima di giocare a pallone dovevo aiutare mamma a fare gnocchi e ravioli. Erano le regole: prima di avere bisogna dare. In famiglia ho sempre sentito una forte tensione etica, che ho portato nel mio lavoro“.
Il suo ruolo era di “centravanti. Un numero 9 strutturato, per l’età. A sedici anni ero già in C2, nella squadra di Rho, la Rhodense, ormai professionista. Però frequentavo l’alberghiero, e i compagni mi chiesero di giocare nel torneo scolastico. Mio padre non voleva, mi avvertì di non correre rischi inutili”. Lui invece nascose “la scarpe da calcio in fondo alla borsa di scuola, e andai al campo. Mi trovai a tu per tu con il portiere avversario, che fece un’uscita spericolata, forse anche un po’ cattiva. Mi travolse, mi falciò: frattura esposta e scomposta di tibia e perone. Intervento chirurgico al Cto di Milano, un mese di trazione, sei mesi di recupero. Metodo Ilizarov: la gamba mi fu immobilizzata da un fissatore esterno, senza gesso. La carriera da calciatore era finita; cominciava quella da cuoco. Sliding doors: si chiudeva la porta dello sport, si apriva quella della cucina”.
Oldani: “Andai a Londra per tagliare il cordone ombelicale”
La carriera di Davide Oldani è cominciata da Gualtiero Marchesi, in via Bonvesin della Riva a Milano. “Era un signore. Mai un insulto, mai una volgarità, mai una parola fuori posto: non aveva bisogno di alzare la voce per farsi ascoltare. Per me è stato un secondo padre. Eravamo un gruppo di ragazzi… Poi arrivò Enrico Crippa, che ora ha tre stelle a Piazza Duomo ad Alba” racconta al Corriere della Sera. In seguito arrivò Marchesi che “a vent’anni mi propose di andare a Londra, a Le Gavroche. Mio padre era contrario: “Attenzione, là sarà tutto sulle tue spalle”. Ma io lo tranquillizzai: “Penserò a me stesso, tu non ti devi preoccupare”. Sentivo di dover tagliare il cordone ombelicale. Anche se poi piangevo ogni sera, per le difficoltà che dovevo affrontare; comprese le collect call alla famiglia. Non ho mai avuto un piano B: sapevo che la cucina sarebbe stata la mia vita. A Le Gavroche incontrai un ragazzo inglese di talento: lui faceva i pesci, io le carni. Si chiamava Gordon Ramsay“.
Poi andò da Alain Ducasse “all’Hotel de Paris a Montecarlo”. Da Marchesi invece “giravo il mondo nei suoi ristoranti, dal resort di Pebble Beach in California al New Otani di Tokyo: in America mi portavano a vedere le balene, in Giappone la mangiavano. Ma non era mancanza di rispetto; erano due culture del cibo diverse. Avevo imparato il surf, ma ho scoperto che c’erano gli squali e ho smesso. Ma l’arte della pasticceria l’ho imparata a Parigi da Pierre Hermé, il re dei macaron”.