Nel periodo di Natale arrivano, come ogni anno, le recite natalizie, e con esse una certa dose di polemiche. Il fatto più eclatante di questi giorni è quello relativo a una scuola di Padova, dove, in nome dell’inclusività e della tolleranza, si è deciso di sostituire il nome di Gesù con il sostantivo “cucù” (va detto, per completezza, che dopo le proteste dei genitori i maestri si sono scusati). La ragione che ha portato a questa decisione è che in questo modo non si sarebbero offese le persone non cristiane. L’altro lato della medaglia è che, per non ferire le persone che non credono, si finisce al contrario per offendere quelle che sono cristiane: “È difficile, anche da un punto di vista puramente umano, accettare una posizione, secondo la quale solo l’ateismo ha diritto di cittadinanza nella vita pubblica e sociale, mentre gli uomini credenti, quasi per principio, sono appena tollerati” (san Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis).
Il dramma però non si ferma semplicemente qui, ma dilaga nello scontro, che sfocia in ideologia, tra chi vorrebbe bandire ogni forma religiosa e chi invece la vuole tenere, in nome di vecchie e consolidate tradizioni. In una come nell’altra posizione, non si tiene però conto dell’argomento in questione: il Natale e il suo significato. Natale non è una festa commerciale né il rilancio costante di tradizioni ancorate al passato sbandierate come asettici valori (non va dimenticato che “all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”; Benedetto XVI, Deus Caritas est), quanto piuttosto l’occasione per riaccorgersi dell’Evento che ha cambiato la storia dell’uomo, una volta e per sempre.
Non è un invito a diventare più buoni, tanto più in un tempo dove il termine “bontà” è confuso e pervaso da sentimentalismi di vario genere (di cui il politically correct ne è, per certi versi, una forma perversa ed estrema), ma a riconoscere, ancora una volta, che Dio si è fatto carne, che “un bambino è nato per noi” (Is 9,5). Viene in mente Agostino: Questo è l’orrendo e occulto veleno del vostro errore: che pretendiate di far consistere la grazia di Cristo nel Suo esempio e non nel dono della Sua persona”.
Provare a ricentrare il Natale sulla venuta di Cristo fa sorgere più di una domanda su quanto accaduto a Padova: come può un Bambino avvolto in fasce in una mangiatoia (cfr. Lc 2) fare paura o essere fonte di discriminazione e di intolleranza? Guardate il bambino: cosa c’è da temere?
Nello stesso periodo in cui è avvenuta questa “censura tollerante” sul nome di Gesù, in Nicaragua, Paese dove la persecuzione ai cristiani continua imperterrita, è stata proclamata una diversa forma di censura: il presidente Ortega ha vietato i presepi viventi sul suolo della nazione, così che questi possano essere fatti dai fedeli solamente all’interno delle varie chiese. Anche qui Gesù Bambino non è gradito. Anche in questo caso sorge la stessa identica domanda: cosa c’è, di questo Bambino, da temere?
Come se non bastasse è stato arrestato un altro vescovo dopo il tristemente famoso mons. Alvarez: anche mons. Isidoro del Carmen Mora Ortega, colpevole di aver chiesto alla comunità cristiana di pregare per il confratello prigioniero, è ora detenuto dallo Stato, insieme a due seminaristi arrestati con lui. In totale nel 2023 sono 275 i preti e i religiosi arrestati dal regime.
L’attacco al presepio e alla Chiesa sembra quasi essere, per analogia, una moderna strage degli innocenti del tetrarca Erode. Cosa lega questi due avvenimenti geograficamente così distanti, se non il rifiuto di Cristo? Certo sono due fatti con caratteristiche molto diverse, ma fa riflettere il fatto che in un caso la presenza del nome di Gesù, così si sostiene, sia divisivo e motivo di offesa i non credenti, e che nell’altro sia motivo di persecuzione per chi, a quel nome, ha deciso di non rinunciare.
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