Si ha l’impressione che l’attualità corra ormai troppo velocemente per essere davvero compresa. Eppure, come spiegava Edmund Husserl, ogni fenomeno umano (sociale, giuridico, economico), ha un tempo minimo di evidenziazione dopo il quale è possibile cogliere realmente cause ed effetti. Non si può procrastinare, non si può essere intempestivi. Sembra essere questo il taglio e il respiro che i due giuristi Domenico Bilotti e Mohamed ‘Arafa hanno voluto imprimere al loro recente volume Mappe della giustizia mediterranea. Cultura secolare del processo e diritto islamico (Mimesis-Jouvence 2023).
Davanti a tanti dossier mai davvero presi in carico dalla governance europea, dalle migrazioni alla guerra, passando per un caro prezzi superiore all’aumento della ricchezza, il fugace scolora e bisogna tornare a osservare il mondo con le lenti di una profonda analisi comparatistica.
I due autori, perciò, lavorando da angolazioni differenti, giungono invero a individuare una comune base d’analisi: se un tratto fondamentale c’è, nella odierna cultura mediterranea, è la sua identità plurale, profondamente antimonolitica. Poche dimensioni antropologiche riescono altrimenti a cucire il quadro d’insieme: le relazioni familiari (quanto mai in crisi dall’interno e delegittimate dall’esterno), il monoteismo degli ultimi due millenni (oggi immerso in un tempo secolare), l’affermazione di costituzioni repubblicane e procedure elettorali in un momento, tuttavia, di spiccato ridimensionamento delle medesime.
Il cospicuo saggio di Bilotti proprio questi temi esplora, soffermandosi in primo luogo sulla critica populista alla democrazia e sull’attitudine dell’estremismo politico ad usurpare, assumendo in sé, processi di significazione tipicamente religiosa. Il leader si propone sempre più spesso come sacerdote unico del consenso e abbatte ogni polifonia, senza mai addivenire a decisioni efficaci, proprio per legittimare la viscosità che ne ha favorito l’ascesa. In una posizione ora di sudditanza ora di aperta contraddizione, giurisdizioni e processo si presentano come non mai in quanto territori di scontro per affermare gli unici riti davvero apportatori di verità. Mediatica e legale.
Le imposizioni sono perciò la facile strategia per schivare senza risolvere, ma gridandole addosso, la richiesta di sicurezza sociale e di protezione dei diritti. Ci pare che, procedendo sul terreno suo proprio dell’analisi giuridica, Bilotti in sostanza si schieri contro i meccanismi simili di questi anni: la smaterializzazione dell’economia finanziaria, l’uso strumentale dei confini geografici, l’esclusione del dialogo interreligioso tra i movimenti civili idonei a forgiare un sentimento collettivo. La promessa illusoria di un’egoistica libertà smisurata non solo è antipersonalistica, ma funge in realtà da deresponsabilizzazione diffusa e da stallo governativo nei processi culturali.
Se Bilotti punta così alla comparazione e all’intercultura, nel rapporto simbolico con l’origine religiosa degli attuali diritti secolarizzati, ‘Arafa entra in medias res affrontando la questione della pena di morte nel mondo arabo-islamico. Credente e su posizioni abolizioniste, il giurista egiziano non può non notare come – nel suo Paese e nell’area nordafricana e mediorientale tutta, a più riprese – si stia affermando una concezione della giustizia e della pena caricaturale rispetto alla più nitida analisi del testo coranico. Questo, anzi, agitato dai vari governi più o meno teocratici in quanto carta bianca per legiferare secondo il proprio interesse: condotta allora insieme antidemocratica e antireligiosa. Attivisti per i diritti umani e spiriti credenti combattono senza confrontarsi abbastanza battaglie molto più simili delle apparenze.
Il raffinato playmaker della discussione, Francesco Iacopino, avvocato attivo nell’Unione delle Camere Penali, scrive così una prefazione che a conferma dell’unitarietà del volume può essere letta anche a seguito delle cospicue rassegne giurisprudenziali di ‘Arafa e Bilotti: la sfera del bene comune non si protegge con la forca da un lato (mondano) e col fondamentalismo da quello spirituale. Se non si vuol fare luogo comune, appunto, anziché “bene comune” occorre piuttosto tornare all’attitudine del diritto ad apprestare doveri e garanzie e a quella delle religioni a mettere in cammino e a confronto persone di buona volontà.
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