È appena uscita dalla guerra del Tigray, deve affrontare una situazione economica non facile, con lo spettro di un default per un debito non pagato che potrebbe aggravare la situazione. E ha visto crescere la delinquenza in alcune zone a causa delle azioni di soldati sbandati. L’Etiopia deve affrontare questi e altri problemi: la gente subisce l’aumento dei prezzi ed è legata ancora, almeno in parte, a un’economia di scambio.
In questo contesto la comunità cattolica, la meno numerosa rispetto ad altre cristiane e a quella musulmana, cerca di dare un contributo alla crescita del Paese con scuole e opere sociali. Lo racconta monsignor Angelo Pagano, frate cappuccino, dal 2016 vicario apostolico di Harar, città a maggioranza musulmana: la Chiesa nel Paese promuove il dialogo.
L’Etiopia sta per dichiarare default perché non riuscirà a pagare un debito di 33 milioni su un prestito: qual è la situazione economica del Paese, ha le risorse per risollevarsi?
Ufficialmente la questione del prestito non è molto chiara, ma la situazione economica si aggraverà ancora di più. Ultimamente in Etiopia, nonostante qualche opera nel campo edilizio, per la gente comune la situazione è difficile: lo si capisce per esempio dall’aumento dei costi nei trasporti, per cui si fa fatica anche a muoversi, è cresciuto il prezzo del carburante e tutta la merce che viaggia sulle quattro ruote ha subito dei rincari. Il costo della vita è aumentato anche di due, tre, quattro volte, secondo i generi alimentari. Nonostante questo la povera gente cerca di andare avanti, vivendo di scambio merci: dove siamo noi non ci sono fabbriche o altre attività. Una situazione che comunque ha portato del malcontento.
Quanto pesa il debito con i Paesi esteri sull’economia e come condiziona la situazione?
Il debito pubblico è con le potenze straniere che hanno investito sul territorio, in particolare i cinesi che hanno costruito la ferrovia, palazzi, hanno portato manodopera. I Paesi africani, d’altra parte, devono poter crescere secondo la loro misura. Poi però c’è fretta di farlo e ci si accorge che si è fatto il passo più lungo della gamba. Per quanto riguarda il possibile default staremo a vedere: vista la situazione, se succederà anche questo cambieranno le strategie nel Paese.
Come in molti Paesi africani anche l’Etiopia è appena uscita da una guerra come quella del Tigray, che ha comportato una crisi umanitaria. Qual è la situazione dal punto di vista della sicurezza, c’è sufficiente coesione sociale o prevalgono ancora le tensioni?
La crescita dei prezzi si accompagna all’aumento della delinquenza dopo la fine della guerra fratricida tra il governo centrale e la regione del Tigray. Si è raggiunto un accordo poco più di un anno fa, ma la guerra si fa presto a iniziarla ancora, mentre finirla diventa complicato, rimangono focolai e soldati che sono sbandati. Ci sono alcune zone del Paese in cui cominciano a farsi giustizia da soli: fermano e rapiscono le persone e chiedono un riscatto. Il governo fa del suo meglio: l’Etiopia è vastissima, ha 120 milioni di abitanti. Un certo controllo sulle strade, negli aeroporti, comunque c’è.
Come vive la gente comune, quali sono i principali problemi che deve affrontare e quali le cause? Com’è la situazione dal punto di vista sanitario e alimentare e come incidono i grandi eventi climatici sulle condizioni di vita delle persone?
Come dappertutto abbiamo avuto cambiamenti climatici: piogge fuori stagione, torrenziali, inondazioni, ma anche cavallette e siccità. In tante zone quest’anno la pioggia ha rovinato il raccolto. Chi sta bene e può permettersi di comprare i beni alimentari lo fa, ma nei villaggi la gente scambia quello che ha, i pomodori con le patate, ad esempio, oppure fanno lavori artigianali. I mercati sono sempre pieni. Nonostante tutto, però, c’è abbastanza calma, ci si può muovere e la gente è cordiale.
Di fronte alle difficoltà tra la popolazione prevale la volontà di andarsene, di cercare fortuna fuori dal Paese e magari anche in Europa? O c’è ancora fiducia di risollevare il Paese?
L’Etiopia da questo punto di vista non è come altri Paesi. I giovani che se ne vanno si orientano verso il Sudafrica, verso i Paesi arabi dove le donne possono trovare lavoro come collaboratrici domestiche. Pochi vanno in Europa con i barconi. In Africa chi se ne va spesso si trasferisce in altri Paesi del continente: ci sono giovani arrestati in queste nazioni perché sono emigrati senza documenti, anche la Chiesa si sta muovendo per liberarli.
Nel Paese ci sono diverse confessioni religiose: come convivono le comunità cristiane tra loro e che rapporti ci sono con i musulmani? I cattolici che ruolo hanno in questo contesto?
Io mi trovo nella quarta città musulmana del mondo, Harar, musulmana per il 70%. Noi cattolici siamo un numero insignificante, 8.500. In generale c’è molto rispetto e tolleranza, anche se ci sono dei gruppi che escono dalle righe. Da altre parti i cristiani fanno fatica a trovare lavoro e case da affittare. Non ci sono scontri e violenze, può capitare in qualche occasione, ma non c’è una persecuzione. Questo anche se ci sono state scaramucce fra ortodossi e musulmani.
Anche in contesti difficili il Natale porta comunque un messaggio di speranza. Cosa deve cambiare nelle persone, nella politica, dal punto di vista sociale perché questo messaggio attecchisca?
Non bisogna arrendersi, nel senso cristiano: non bisogna perdere la speranza perché ci aiuta a superare le difficoltà. Come vescovo e frate cappuccino non posso far altro che parlare di pace. Dobbiamo trovarci con le altre confessioni, come qualche volta si fa, per portare avanti il dialogo. Le opere sociali che realizziamo come cattolici non sono solo per la nostra comunità. Se abbiamo l’acqua la diamo a tutti, non solo ai cattolici.
In cosa si distinguono i cattolici da questo punto di vista?
Ci sono opere sociali pastorali e altre solo sociali, anche se sono fatte comunque con un taglio diverso, che punta alla promozione umana. Se abbiamo dieci sacchi di farina li dividiamo con la gente. Un lavoro molto apprezzato. Come Chiesa facciamo acquedotti, pozzi. Abbiamo la Caritas, i nostri laboratori, le nostre macchine. Le persone ci rispettano molto, magari non sanno chi sono i cattolici, ma sanno che siamo quelli che aiutano tutti. Ai nostri lavoratori (abbiamo più di mille tra impiegati e operai), cattolici, ortodossi o musulmani che siano, insegniamo di vivere in pace. Le suore e i religiosi portano avanti diverse scuole, ci vanno anche figli dei ministri: è bello vedere come molti ci riconoscono il lavoro fatto. L’anno scorso c’è stato un ragazzo cresciuto nel nostro orfanotrofio che si è laureato come medico. Il popolo etiopico è orgoglioso e capace, se aiutato si può risollevare. Io sono stato diverso tempo in Camerun e qui adotto lo stesso metodo che usavo là: quando ci sono dei progetti raduno il villaggio e decidiamo insieme, perché un progetto pensato con le persone poi viene seguito e realizzato dalla gente che lo sente come suo.
(Paolo Rossetti)
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