Patto e Mes: quei Sì & No all’Europa

Nella conferenza stampa di fine anno Giorgia Meloni sarà chiamata a spiegare la decisione italiana di non ratificare la riforma del Mes e di dire sì al nuovo Patto di stabilità

Domani, nella conferenza stampa di fine anno, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni sarà chiamata a fornire per esteso le motivazioni ufficiali della decisione italiana di non ratificare la riforma del Mes. Non è improbabile che neppure dalla viva voce della premier giungerà una “interpretazione autentica” propriamente detta. Meloni stessa dovrà misurarsi con le incertezze e le ambiguità – politiche ed economiche – che hanno caratterizzato le prime reazioni politico-istituzionali e d’opinione. Un feedback che palazzo Chigi ha non per caso voluto attendere a cavallo della pausa natalizia.

Non c’è dubbio che il “Sì & No” maturato la settimana scorsa fra Bruxelles e Roma sia sia stato in parte inatteso, “spiazzante”. Il consenso degli osservatori (fra cui anche chi qui scrive) puntava su un doppio Sì: al nuovo Patto di stabilità e quindi – come corollario dall’Italia – all’adesione finale al Mes. Nei commenti critici a caldo, il No parlamentare della maggioranza italiana di destra-centro al Salva-stati è stato infatti tacciato soprattutto di “incoerenza europeista”. E lo spunto di sponda mediatica è risultato in qualche modo teso a depotenziare il passo totalmente “europeista” del Governo che – attraverso il ministro Giancarlo Giorgetti – ha firmato senza ritardi il nuovo Patto. Nei fatti sarebbe stato il veto italiano alla bozza di nuovo Patto (legittimo nella governance Ue ed evocato più volte dalla premier) ad avere conseguenze reali e pesanti per la stessa stabilità istituzionale dell’Unione in questa fase difficilissima.

A questo tavolo l’Italia ha invece detto Sì, senza se e senza ma. Certamente non prima di aver trattato duramente (la Meloni si è impegnata a fondo di persona con Bruxelles, Parigi e Berlino). Certamente non conseguendo i risultati sperati, anzi forse riportando a Roma il minimo accettabile: comunque nettamente preferibile – sia sul piano tecnico che politico – al ripristino delle vecchie regole. Il quale sarebbe stato addossato a un veto italiano e subito sovrapposto a quello dell’Ungheria su flussi migratori e aiuti all’Ucraina.

Saltellando abilmente fra ragioni dell’economia e della politica, è sembrata avvicinarsi più al cuore della questione la leader del Pd, Elly Schlein, quando ha criticato a caldo il sì a un Patto “che farà male all’Italia”: Il sentiero transitorio individuato dal nuovo Patto per i Paesi fortemente indebitati come l’Italia appare effettivamente severo. Ma nei fatti palazzo Chigi ha accettato la sfida – tecnica e istituzionale – rilanciata da quell’Europa che il Pd ha sempre rivendicato come “cosa propria”, alla base di una propria pretesa superiorità etico-politica. L’Ue di Romano Prodi, ex presidente della Commissione, e del commissario uscente agli Affari economici Paolo Gentiloni. Quell’Europa sempre preoccupata dei conti italiani, anche dopo un decennio di governo a indiscussa trazione “dem”. Né può essere trascurato che la compatibilità italiana con il nuovo Patto è stata preventivamente costruita con una Legge di bilancio a sua volta spiazzante per l’opposizione e i suoi commentatori: molto europeista perché non così lontana dall’austerity imposta dai Governi tecnici (ad esempio sul versante previdenziale). E il mercato (a cominciare dalle agenzie di rating) ha per ora detto sì all’Italia, mantenendo lo spread nella relativa normalità di un anno di guerra, inflazione e tassi alti.

Tutto questo osservato, il no italiano al Mes non è certo privo di significati e non sembrano completamente ingiustificate le denunce di elettoralismo, in vista del voto europeo del prossimo giugno. Però la questione merita di essere collocata in una prospettiva più larga, comprendente anche le categorie della politica economico-finanziaria, nazionale ed europea. Mai dimenticato che all’Italia non è impedito di entrare a pieno titolo nel Mes in un secondo tempo, il Meccanismo è figlio di una Ue giù virtualmente in bacino di carenaggio. È stato pensato ancora prima della pandemia come strumento puramente tecnocratico, supplente di una gestione autenticamente politica delle finanze pubbliche nell’Ue. Una svolta sempre invocata (per primo da Mario Draghi), ma mai realizzata per l’opposizione dei gestori di tutti i “meccanismi automatici”, Germania e Francia, con la tecnocrazia di Bruxelles.

Quella che comprende anche il Mes è una visione dell’Europa sempre discussa in un’area del pianeta che difende il primato democratico della sovranità popolare; una visione oggi entrata in crisi reale: tecnica e politica. Se Meloni è premier in Italia, se Emmanuel Macron ha bisogno dei voti lepenisti per evitare la sfiducia parlamentare, se la coalizione rosso-verde di Olaf Scholz è sull’orlo del crollo, se in Olanda il partito nazionalista di Geert Wilders ha vinto le ultime elezioni contro Frans Timmermans, lo “zar Ue” della transizione verde, è perché questo modello “automatico” non è più coerente con l’Europa reale (molto più vasta e maggioritaria di quella dell’estremismo anti-Ue).

Se l’Ue vuole sopravvivere, la sua architettura – politico-istituzionale, monetaria-finanziaria, economico-competitiva – va necessariamente cambiata: a fondo e in fretta. Lo dovranno fare – tutti gli europei devono augurarsi lo facciano – i nuovi parlamentari europei e i nuovi commissari Ue dopo la verifica elettorale di giugno.

La maggioranza italiana di centrodestra – che si è imposta al voto politico del 2022 – punta evidentemente a replicare il successo: e nessuno può ragionevolmente accusarla di questo, tanto meno agitando un vecchio europeismo ideologico e di maniera. Il Governo Meloni e le forze che lo sostengono hanno scoperto le loro carte: sì al Patto (cioè all’avvio di un percorso europeo di risanamento finanziario nel prossimo triennio) e no al Mes (no a cessioni di sovranità nazionale alla tecnocrazia Ue; sì al ridisegno della governance Ue). L’opposizione ha per ora reagito “in automatico”: no al Patto sottoscritto dal Governo FdI-Lega-FI e sì al Mes, sempre sostenuto dal “campo largo” fra M5s e Pd nel governo Conte-2.

Domani non sarà una passeggiata per Meloni argomentare il suo “Sì & No”, indossando il doppio cappello di premier italiana e di leader della destra riformista europea. Ma sembra più impervio ancora per il Pd – all’inizio della sua campagna – articolare (tecnicamente e politicamente) le sue critiche al nuovo Patto Ue e ripetere nello stesso tempo i mantra sul primato dell’Europa tecnocratica franco-tedesca.

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