È principio recetto che, ai fini della legittimità del licenziamento intimato dal datore di lavoro per soppressione del posto di lavoro, non basta dimostrare l’effettività della soppressione, ma è necessario dimostrare anche l’impossibilità di un diverso utilizzo del lavoratore in altre mansioni nel contesto aziendale (c.d. obbligo di repechage). Ma fino a che punto si estende l’obbligo di repechage del datore di lavoro? È sufficiente dimostrare l’impossibilità di adibire il lavoratore alle mansioni rientranti nel livello di inquadramento posseduto dal lavoratore da licenziare o è necessario estendere la verifica anche alle mansioni rientranti nei livelli inferiori? E quali sono le conseguenze derivanti dalla violazione dell’obbligo di repechage? Spetta al lavoratore illegittimamente licenziato la tutela meramente indennitaria o quella reintegratoria?
Su entrambe le questioni si è recentemente pronunziata la Cassazione con due interessanti ordinanze pubblicate entrambe il 13.11.2023 (Cass. n. 31561/2023 e Cass. n. 31451/2023).
Il caso considerato da Cass. n. 31561/2023 era quello di una cassiera licenziata per soppressione del posto di lavoro. Nel corso del giudizio di merito era stato accertato che, ferma l’effettiva soppressione del posto di cassiera, dopo il licenziamento erano stati assunti diversi lavoratori per lo svolgimento delle mansioni di cameriere, di aiuto cuoco, di lavapiatti e di addetto al bancone o ai tavoli. Secondo la Corte di Appello di Roma, le nuove assunzioni non potevano inficiare la legittimità del licenziamento in quanto, sebbene ricomprese nello stesso livello di inquadramento dei cassieri, le mansioni di cameriere, aiuto cuoco e lavapiatti “(secondo massime di comune esperienza) implicano una specifica professionalità che il cassiere non ha”.
Con la citata ordinanza 31561 del 13.11.2023 la Cassazione ha accolto il ricorso della lavoratrice, affermando anzitutto che, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro dimostrare l’impossibilità di repechage del dipendente licenziato (con esclusione dei dirigenti, ai quali l’obbligo di repechage non si applica), senza che sul lavoratore incomba l’onere di indicare quali siano i posti disponibili in azienda. Trattandosi di prova negativa, la giurisprudenza richiede al datore di lavoro di fornire la prova di fatti e circostanze di tipo indiziario o presuntivo, come ad esempio la prova che nella fase concomitante e successiva al recesso, per un congruo periodo, non sono avvenute nuove assunzioni oppure sono state effettuate per mansioni richiedenti una professionalità non posseduta dal lavoratore.
La Cassazione chiarisce poi che il datore di lavoro è tenuto a dimostrare l’impossibilità di assegnare il lavoratore a mansioni non solo equivalenti ma anche inferiori, stante l’oggettiva prevalenza dell’interesse del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro, rispetto alla salvaguardia della professionalità che sarebbe comunque compromessa dall’estinzione del rapporto.
Il principio, originariamente affermato in caso di sopravvenuta infermità permanente, è stato esteso dalla giurisprudenza anche alle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dovute a soppressione del posto di lavoro. Prima di intimare il licenziamento, il datore di lavoro è tenuto quindi a ricercare possibili situazioni alternative e, se le stesse comportino l’assegnazione a mansioni inferiori, è tenuto a prospettare al lavoratore il demansionamento, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, potendo recedere dal rapporto solo nel caso in cui la soluzione alternativa non venga accettata dal lavoratore. L’unico limite è rappresentato dal fatto che il licenziando non abbia la capacità professionale richiesta per occupare il diverso posto di lavoro. Ma come chiarito dalla Cassazione, ciò non può dipendere da una valutazione meramente discrezionale del datore di lavoro ma deve risultare da “circostanze oggettivamente riscontrabili palesate dal datore di lavoro”.
Con ordinanza n. 31451/2023 la Cassazione ha ulteriormente precisato che il datore di lavoro non può limitarsi (come nel caso esaminato) a offrire mansioni corrispondenti al livello immediatamente inferiore a quello ricoperto dal dipendente da licenziare, ma deve offrire qualsiasi mansione inferiore che il dipendente abbia la capacità professionale di svolgere, a prescindere dal livello di inquadramento: libero, poi, il dipendente, di accettare o meno le nuove mansioni. Nel caso di specie, il lavoratore licenziato rivestiva la qualifica di 7° livello e la società si era limitata ad allegare l’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni rientranti nel livello di inquadramento posseduto dal lavoratore e nel livello immediatamente inferiore (ovvero il 6°). Nulla di specifico la società aveva dedotto in ordine alle eventuali assunzioni operate nel periodo controverso in tutte le sue sedi e in tutti i livelli di inquadramento inferiori al 6°, precludendo in radice qualsiasi valutazione circa la compatibilità con il bagaglio professionale del dipendente licenziato. E allora, secondo la Cassazione, legittimamente la Corte territoriale ha ritenuto che il datore di lavoro non avesse assolto all’obbligo di repechage.
Quanto alle conseguenze derivanti dalla violazione dell’obbligo di repechage, la Cassazione ha ribadito quanto più volte affermato negli ultimi tempi, anche a seguito delle sentenze della Corte Costituzionale n. 59 del 2021 e n. 125 delle 2022: il lavoratore al quale sia applicabile la tutela dell’art. 18 Stat. Lav. ha diritto (non alla tutela meramente indennitaria ma) alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione (non superiore a 12 mensilità): senza margini di discrezionalità da parte del Giudice e senza che assuma rilevanza la valutazione circa la sussistenza o meno di una chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti di legittimità del recesso.
È da segnalare poi che, come affermato dalla Cassazione con sentenza n. 12132 dell’8 maggio 2023, il datore di lavoro è tenuto a prendere in esame non solo le posizioni già vacanti alla data del licenziamento, ma anche quelle che saranno “disponibili in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui viene intimato il recesso” quando tale circostanza sia nota al datore di lavoro.
Il trend è chiaro: estendere l’obbligo di repechage che grava sul datore di lavoro e nel contempo rafforzare la tutela applicabile al lavoratore illegittimamente licenziato.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.