Un’altra rappresaglia, così mostruosa da essere rimasta nella storia nazionale, è quella eseguita il 28 dicembre 1943 al poligono di tiro di Reggio Emilia. Qui furono fucilati i sette fratelli Cervi e il loro compagno di lotta Quarto Camurri. I Cervi avevano costituito una banda partigiana che operava al di fuori degli ordini provenienti dalla direzione del Partito comunista, che privilegiava l’azione dei GAP e scoraggiava l’azione nelle campagne. Il ribellismo dei Cervi si concretò in alcune azioni che irritarono la direzione locale del Partito. Considerati pericolosi, i Cervi vennero progressivamente isolati dai propri compagni. Il 25 novembre diverse decine di militi fascisti attaccarono la fattoria e fecero prigionieri il padre, i sette figli, il loro amico Quarto Camurri e alcuni prigionieri di guerra che erano stati ospitati. Era chiaro che i Cervi erano in pericolo di vita e il Partito diramava l’ordine di non compiere azioni fino a quando non fossero stati liberati. Tuttavia, a distanza di pochi giorni, ben due esponenti fascisti furono assassinati e la rappresaglia si scatenò sui sette fratelli. Tutti e sette oltre a Quarto Camurri vennero fucilati: una misura punitiva che volle essere “un esempio” e lasciò attoniti per la sua spietatezza. Nonostante qualcuno (forse lo stesso Mussolini) avesse espresso dubbi sull’atrocità di uccidere sette fratelli, la sentenza fu eseguita.
Il giorno prima, 27 dicembre, un’altra vendetta sotto forma di rappresaglia era stata eseguita a Savona. Il 23 dicembre un attentato partigiano aveva provocato la morte di tre persone e il ferimento di altre 17. La vendetta si scatenò sugli antifascisti più noti: un avvocato di Giustizia e libertà (Cristoforo Astengo), tre militanti comunisti (Francesco Calcagno, Carlo Rebagliati e Arturo Giacosa), Aurelio Bolognesi e Aniello Savaresi, partigiani del gruppo Stella rossa. Siccome mancava un cattolico, si pensò a quell’accanita e pervicace spina nel fianco di Renato Vuillermin, tre lauree, veterano di guerra, avvocato e docente di scienze. I fascisti, paradossalmente, in questo come in altri casi, scegliendo le loro vittime nel mondo politico, contribuirono a prefigurare e a legittimare il cosiddetto “arco costituzionale” e la democrazia pluripartitica del dopoguerra.
La mattina del 27 dicembre i sette condannati vennero fatti scendere dal torpedone e avviati al luogo dell’esecuzione al Forte della Madonna degli Angeli di Savona. Il comandante della milizia si accanì su di loro, mettendoli al muro senza nemmeno togliere loro i ferri, facendosi beffe di loro. Astengo protestò contro una condanna a morte così ingiusta: “Vigliacchi! Dunque ci assassinate così! Vigliacchi! Vi macchiate del peggior crimine che la storia ricordi!” cui l’ufficiale fascista rispose: “Questo è il conto che vi si salda dopo vent’anni di propaganda antifascista!”. Vuillermin prese la parola: “Giacché mi dovete ammazzare, datemi almeno l’estremo conforto della religione, chiamatemi un prete”, e il seniore beffardo, indicando il muro: “Andate là! Ho regolato io tutti i conti per voi anche con Dio!”. Fece schierare i condannati in modo da fucilarli alla schiena, poi ebbe parole traboccanti di odio: “Così devono crepare i traditori! Vi daremo tanto piombo da far capire a tutti i savonesi come devono comportarsi, se vogliono vivere!”, ma intanto Vuillermin gridava “Io credo in Dio padre Onnipotente…”. Fu interrotto da una raffica di mitra. I condannati furono finiti a revolverate e depredati di denaro e orologi.
Per l’ultimo episodio della incipiente guerra civile dobbiamo invece andare a Erba (Como), al cimitero nuovo, poco fuori del centro abitato. La lapide dedicata al giovane Giancarlo Puecher è lì, evidentissima, su quel muro che fu sbrecciato dalle fucilate. Se voltiamo le spalle al muro, lontano, a sinistra il lago di Pusiano e, più oltre, le alture lecchesi; davanti a noi il lago di Alserio. Quella notte Giancarlo Puecher poteva vedere solo le luci dei fari e il muro davanti a sé, essendo stato condannato alla pena di morte mediante fucilazione alla schiena. Ad appena vent’anni non gli ci volle molto per ricordare la sua breve vita. Nato a Milano da agiata famiglia borghese (il padre Giorgio era notaio) era stato uno studente brillante tanto da compiere due corsi liceali in un anno ed era atletico, esuberante, particolarmente abile negli sport di montagna. Il 31 luglio 1941 la madre morì dopo una breve malattia. Per Puecher scegliere la Resistenza fu naturale come respirare. L’8 settembre del 1943 Puecher si trovava a Villa Geno, sul lago di Como, prigioniero con altri cento ragazzi in attesa della deportazione. Puecher chiese all’interprete italiano di dargli solo un pretesto, un’occasione per fuggire con gli altri. L’interprete, coraggiosamente, si prestò alla bisogna e distrasse l’ufficiale tedesco per compilare i fogli matricolari dei prigionieri. Puecher, vista la buona occasione, impartì l’attenti a tutti i suoi compagni, li incolonnò e a passo di marcia si allontanò con loro salutando militarmente la sentinella per poi fuggire a rotta di collo. Le poche operazioni compiute da Puecher e dalla sua banda, di cui faceva parte anche don Carlo Gnocchi, furono incruente: furto di carburante, di quattro muli, di un’auto per poi passare al recupero di armi e al sabotaggio di linee telefoniche.
Il 12 novembre la fortuna di Puecher si esaurì e fu catturato a un posto di blocco in possesso di un tubo di gelatina esplosiva. Per tre settimane egli fu sottoposto a pesanti interrogatori condotti a cinghiate e colpi di asciugamano bagnato per farlo parlare, senza alcun risultato. La mattina del 13 novembre i militi fascisti irruppero nella villa dei Puecher e arrestarono il padre senza che vi fosse contro di lui la minima accusa. Così, per qualche settimana padre e figlio poterono condividere la stessa cella. In tutta Italia, nel frattempo, stava scoppiando la guerra civile. Il 18 dicembre venne ucciso a Milano il federale Aldo Resega e il 20 dicembre toccò a Germano Frigerio, un fascista di Erba. Immediatamente il prefetto Francesco Scassellati Sforzolini convocò un tribunale straordinario, che in realtà doveva servire a mascherare la volontà di rappresaglia più che mai presente tra i fascisti.
Dopo un processo di dubbia legittimità (tanto che la sentenza venne annullata l’anno dopo e i condannati rimessi in libertà) iniziò la trattativa sul numero dei fucilandi che, inizialmente, dovevano essere 5 per poi passare a 5, poi a 4 fino a che l’unico a essere giustiziato fu proprio il giovane Giancarlo.
Erano le due di notte del 20 dicembre e la sentenza doveva essere eseguita immediatamente. Fu lasciato tempo a Puecher di scrivere un’ultima lettera, una delle più commoventi tra le tante lasciateci dai patrioti che parteciparono alla Resistenza: “Muoio per la mia patria. Ho sempre fatto il mio dovere di cittadino e di soldato. Spero che il mio esempio serva ai miei fratelli e compagni. Iddio mi ha voluto, accetto con rassegnazione il suo volere. (…) L’amavo troppo la mia patria non la tradite e voi tutti giovani d’Italia seguite la mia via e avrete il compenso della vostra lotta ardua nel ricostruire una nuova unità nazionale. Perdono a coloro che mi giustiziano, perché non sanno quello che fanno e non pensano che l’uccidersi tra fratelli non produrrà mai la concordia. (…) Stabilite una somma per messe in mio suffragio e per una definitiva sistemazione pacifica della patria nostra. A te papà vada l’imperituro grazie per ciò che sempre mi permettesti di fare e mi concedesti. (…) i martiri convalidano la fede in una vera idea. Ho sempre creduto in Dio e perciò accetto la sua volontà. Baci a tutti”.
Erano le due di notte del 21 dicembre. Puecher venne fatto salire sul camion accanto ai militi che facevano parte del plotone d’esecuzione. Il camion si fermò davanti al cimitero e tutti scesero. Fu allora che Puecher si avvicinò a uno dei militi e gli chiese il nome. Al suo silenzio, fece la stessa domanda a un secondo e a un terzo fino a quando non ebbe la risposta: “Perché vuoi saperlo?”. E il ragazzo rispose con un sorriso: “Tra poco andrò in paradiso a raggiungere mia madre e lassù pregherò per tutti voi. Non siete responsabili di quanto state facendo. Vi perdono tutti”, poi li abbracciò tutti e sei, uno per uno, oltre al comandante della sezione. Venne condotto al muro del cimitero: la pena era la fucilazione alla schiena, quella riservata ai traditori. Ma il cappellano gli diede l’assoluzione, lo abbracciò e gli diede da baciare il crocifisso e l’immagine della Vergine. Poi gli mise in mano il rosario e si allontanò. Puecher era ormai davanti all’Eterno. Nella notte gelida risuonò un ordine, poi una scarica di fucileria, poi altre ancora. Il condannato fu colpito alla testa da tre proiettili, oltre che alla spalla e alla schiena.
Fu il vescovo di Como, monsignor Alessandro Macchi, a recarsi di persona da Giorgio Puecher che, dalla cella, chiedeva continuamente notizie del figlio. Appena il notaio vide monsignor Macchi, comprese e scoppiò in pianto mentre il vescovo gli sussurrava: “Bisogna risalire ai primi cristiani per trovare un esempio di morte simile a quella di Giancarlo”. Quanto a Giorgio Puecher, anche il suo destino era segnato, per quanto non fosse colpevole di nulla, se non di essere ricco, colto e di aver educato un figlio in una maniera invidiabile.
Arrestato dai fascisti per cospirazione fu inviato a Mauthausen. In quelle condizioni di vita, 57 anni compiuti, non c’era speranza. L’8 aprile 1945 Giorgio Puecher si spegneva un mese prima dell’arrivo degli americani.
Giancarlo Puecher Passavalli fu il primo partigiano decorato con la medaglia d’oro al valor militare, ma non è questo il punto. La sua purezza, il suo coraggio davanti alla morte, la sua volontà di pace dovrebbero essere conosciute non da specialisti storici ma da tutti gli italiani. Ed è questo l’obiettivo, ambizioso ma irrinunciabile, di chi scrive queste cronache: contribuire a far conoscere figure come queste perché gli italiani tornino a conoscere se stessi e le proprie radici più edificanti.
(2 – fine)
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