La fase espansiva dell’occupazione iniziata nel 2021 si è consolidata nel 2023 con oltre 23,5 milioni di occupati. Secondo i dati Istat, il tasso di occupazione della popolazione tra 15 e 64 anni non è mai stato così alto negli ultimi 20 anni, salendo a ottobre al 61,8%. Al contempo diminuiscono gli inattivi (32,9% livello più basso mai visto) ovvero coloro che non hanno e non cercano un lavoro. Altro elemento fondamentale è quello della disoccupazione scesa al 7,3% (nel 2007 era al 5,9%). Ulteriori fattori significativi sono l’aumento dell’occupazione femminile, in continua crescita e quella giovanile che, pur aumentata, rimane a livelli inferiori rispetto alla crisi del 2008.
Partire da questi dati è molto importante perché creare lavoro attraverso gli investimenti pubblici e privati è la priorità di ogni Governo e di un’opposizione non assistenzialista e ideologica. Creare lavoro vuol dire investire su uno strumento importante nella vita delle persone. Questa è una sfida per la società moderna, dove spesso si sente parlare di fine del lavoro o, in particolare nei Paesi occidentali, di slegare il reddito dall’attività lavorativa.
Ci troviamo in una situazione per molti aspetti inimmaginabile fino a pochi anni fa. La pandemia, la guerra in Europa e in Medio Oriente, la crisi climatica, ambientale e demografica, la necessità di rivedere i nostri modelli di sviluppo. Questa complicata situazione globale ha reso più evidenti e importanti alcuni temi: il legame tra i popoli è divenuto sempre più stretto e i problemi, su scala mondiale, non fanno che ribadire ciò che più volte ci ha ricordato il Santo Padre, che ci si salva solo tutti insieme; la seconda questione altrettanto dirimente è, la centralità che il valore del lavoro assume ancor di più nella vita delle persone e nell’economia.
Bisogna contrastare la narrazione che sottolinea quasi esclusivamente le persone nel loro ruolo di consumatori, dove basta spendere per far parte di comunità che sembrano vincenti, nascondendo la realtà e cioè che in questo modo siamo solo semplici spettatori, distruttori delle risorse del nostro pianeta e vittime del nostro stesso modello di vita. È il lavoro che deve essere nuovamente valorizzato come momento basilare per la ricerca di senso nella vita, oltre a essere strumento di partecipazione democratica alla società politica, di maturazione personale e di sostegno alla famiglia. Ogni lavoro, anche quello considerato più umile, contribuisce allo sviluppo delle persone e della comunità, arricchendo tutti, non solo economicamente. Di tutto questo ne hanno più bisogno principalmente le giovani generazioni.
Uno dei fattori più significativi dei mutamenti in atto sono sicuramente le innovazioni tecnologiche e la digitalizzazione dei processi produttivi che stanno permeando di fatto tutte le filiere produttive e non, tutti i lavori e sostanzialmente la nostra vita. Le tecnologie, compresa l’Intelligenza artificiale, offrono nuovi spazi di libertà e nuovi rischi. Oggi più che mai, la scelta di come usare la tecnologia è più importante che nel passato, occorre cogliere positività e potenzialità delle innovazioni e non arrendersi mai di fronte ai rischi verso la sicurezza e le libertà.
Nel mondo del lavoro, le innovazioni tecnologiche hanno portato vantaggi ai lavoratori. Si pensi alla diminuzione della fatica fisica, allo smart working (in Italia 3,6 milioni di lavoratori operano da remoto), all’inserimento dei disabili nel mondo del lavoro o al mantenimento del posto di coloro i quali sono stati ritenuti inidonei alle mansioni per sopraggiunti problemi di salute, alle maggiori garanzie di sicurezza. Ma hanno anche creato situazioni che mettono continuamente in discussione le tutele e le modalità di lavoro, prima di tutte la flessibilità dei tempi di lavoro e il continuo dibattito sulla creazione/distruzione di posti. Un’industria sostenibile, per l’ambiente, il territorio e per i lavoratori, non può fare a meno della continua introduzione di nuove tecnologie e quindi di investimenti. Le nuove tecnologie sono fondamentali per la sostenibilità delle imprese, ma vanno pensate e acquistate anche per lo scopo di dare un’anima a esse.
La dignità del lavoro è fatta da molte cose, dalla sua qualità, dall’avere un senso compiuto, da sane e positive relazioni tra i lavoratori e con la dirigenza, dal rispetto delle norme contrattuali comprese quelle sulla salute e sulla sicurezza, da un salario corrispondente alle mansioni, definito dal ruolo delle parti sociali e non dalla legge, dalla reale partecipazione ai processi decisionali, dal rispetto dei doveri e dei diritti di libertà e di associazione sindacale. Il lavoro dignitoso è anche strettamente collegato ai temi dello sviluppo sostenibile, che viene indicato come un obiettivo specifico nell’Agenda Onu 2030. Quando si parla di sostenibilità l’attenzione è concentrata sugli aspetti economici e ambientali, mentre l’aspetto sociale non viene considerato, anche dagli stessi movimenti ambientalisti. Invece la transizione ecologica avrà successo se sarà in via prioritaria socialmente sostenibile, se le persone saranno coinvolte, se si sentiranno valorizzate a cominciare dal poter svolgere un lavoro dignitoso.
Ci troviamo di fronte a una grande sfida, quella di affrontare con coraggio la crisi climatica. E al tempo stesso, si tratta di cambiare il nostro modo di produrre e consumare energia, per ridurre i consumi di petrolio e di carbone, per diminuire i rifiuti prodotti, per riciclare le risorse di cui disponiamo evitando di utilizzarne di nuove e per investire sulle fonti rinnovabili. In tutto questo, un principio deve essere chiaro: il mutamento culturale al quale siamo chiamati – arrivare a un modello di sviluppo ecologicamente sostenibile, basato su un’economia circolare, più efficiente nell’uso delle materie e dell’energia – è un’occasione straordinaria per “riconciliare l’economia con il pianeta”. È il motore di una nuova strategia di crescita che metta davvero al centro la persona e che guardi al futuro, garantendo sviluppo, lavoro e qualità della vita.
La transizione ecologica implica una serie di questioni trasversali che coinvolgono tutti i settori produttivi e dei servizi. Non è un passaggio facile e veloce, non peraltro si chiama transizione, e ci vuole tempo per raggiungere gli obiettivi. L’Unione europea ne ha definiti alcuni, tra cui vi sono la riduzione delle emissioni di CO2 del 55% (rispetto a quelle del 1990) entro il 2030 ed emissioni nette pari a zero entro il 2050. La COP28 di Dubai ha avuto l’ambizione di mantenere l’aumento della temperatura mondiale al di sotto di 1,5°C, ma ha anche definito la creazione di un Fondo per sostenere i Paesi meno ricchi a investire in progetti di mitigazione per ridurre gli impatti del riscaldamento globale.
Nella COP dello scorso novembre, i negoziatori governativi sul clima hanno anche riconosciuto che è necessario un riferimento esplicito ai diritti dei lavoratori, al lavoro dignitoso, ai posti di lavoro di qualità e alla protezione sociale, per questo motivo è importante finanziare ammortizzatori sociali per sostenere il reddito dei lavoratori durante la transizione e concordati tra il Governo, i sindacati e i datori di lavoro, altrimenti ci troveremo di fronte a una crescita della povertà.
La modifica che il Governo ha apportato al Reddito di cittadinanza ha fatto emergere con tutta la sua gravità il problema del sostegno alle famiglie in condizioni di povertà; è necessario mettere a punto al più presto un’offerta adeguata di percorsi formativi che possano dotare le persone di quelle competenze di base e trasversali necessarie per vivere e lavorare. Solo così sarà possibile poi investire in un sistema di apprendimento permanente per l’aggiornamento e la riqualificazione più idoneo a rispondere alle sfide delle rivoluzioni digitale e verde che stanno coinvolgendo i lavoratori e le lavoratrici di tutte le filiere produttive, delle Pmi e non ultime delle imprese artigiane.
Ma per migliorare il rapporto tra lavoro e famiglia e il rilancio della natalità, oltre a investire sugli asili nido e sugli sgravi fiscali, dobbiamo metterci nell’ottica che l’arrivo di persone da altri Paesi non è un disturbo, ma un’opportunità per loro e per il nostro sistema economico, questo vuol dire accoglierli non solo come lavoratori ma anche come famiglie, e quindi integrarli. Certo, serve una regolamentazione che non va fatta né in senso ideologico, né con calcoli opportunistici.
In un contesto di instabilità geopolitica, di lavoro povero e sommerso e di fronte alle transizioni green, digitali e demografiche, le parti sociali sono chiamate a dare risposte a imprese e lavoratori, sfruttando la leva della contrattazione e della partecipazione. Si tratta di condividere esperienze, strategie politiche e contrattuali, già esistenti, che guardino all’innovazione, alla soddisfazione di esigenze garantendo standard elevati di vita a persone e comunità, in un’ottica sempre più ampia e globale.
Il welfare aziendale, oltre a rappresentare esperienze di successo, della contrattazione di secondo livello, è anche fonte di quello che viene definito salario “accessorio” o indiretto. Un ruolo importante lo giocano gli enti bilaterali – creati dal sindacato, insieme alle parti datoriali dei diversi settori economici – per gestire servizi e pezzi di welfare vero e proprio. Si va dalla formazione all’indennità a parziale copertura delle crisi aziendali, dalla sanità integrativa alle borse di studio per i figli, alla pensione complementare. Gran parte del welfare, anche pubblico, è frutto della contrattazione collettiva; welfare che ormai si dà per scontato, dimenticando le origini e il ruolo delle parti sociali, che rischiava di essere ridimensionato/svalutato con il salario minimo per legge proposto da una parte dell’opposizione e sostenuto, purtroppo, da una pezzo di sindacato.
I temi del lavoro povero, della precarietà, e del salario, abbassare le tasse sul lavoro, rifinanziare industria 4.0 e sbloccare gli investimenti per sostenere la crescita economica del Paese ridistribuendo ricchezza e produttività, combattere l’evasione fiscale, richiedono una strategia comune tra politica, sindacato e imprese.
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