Si discute ancora sul vero obiettivo dell’attacco di Giorgia Meloni ai “poteri che vogliono ancora dare le carte”, ma agli osservatori è parso immediato guardare al Quirinale e alla Corte Costituzionale, le due massime autorità di garanzia del gioco istituzionale in Italia. Un’ipotesi avvalorata anche dallo scambio polemico aperto – durante la conferenza stampa di inizio anno – con Giuliano Amato, ancora fresco ex presidente della Consulta e nove anni fa concorrente del giudice costituzionale Sergio Mattarella per la Presidenza della Repubblica. È vero tuttavia che la premier ha colto l’occasione per porre una questione più generale: sulla composizione – di diritto e di fatto – della Consulta e sul suo ruolo nella vita politica italiana. E questo è avvenuto mentre le “corti supreme” sono alle cronache – e in discussione – in molti Paesi democratici occidentali: anzitutto negli Usa, ma anche in Israele, Gran Bretagna, Francia e Germania. Ovunque al centro di primari e roventi passaggi politico-istituzionali.
A Washington i nove justice federali dovranno pronunciarsi sul ricorso di Donald Trump contro lo stop alla sua ricandidabilità per la Casa Bianca, dichiarato dalla Corte Suprema del Colorado. “Scotus” è da tempo nel mirino dei media liberal perché oggi sono soltanto tre i giudici di sicura fede “progressista”, dopo decenni di dominanza opposta, sotto il duopolio delle scuole di Harvard e Yale. Le regole di nomina restano però semplici e condivise in quanto totalmente inserite nel contesto costituzionale statunitense, mai stravolto in quasi due secoli e mezzo. I justice sono a vita (principale tutela alla loro indipendenza) e vengono avvicendati solo quando muoiono o decidono di dimettersi. È il presidente in carica ad avanzare una candidatura, che viene sottoposta al vaglio parlamentare del Senato in carica, con audizioni solitamente severe. Il curriculum dei giudici miscela usualmente contenuti importanti a livello scientifico-accademico con incarichi nella magistratura ordinaria a livello distrettuale o federale, indicati da una Casa Bianca eletta a suffragio diretto. “Scotus” è specchio fedele di una costituzione formale e materiale in cui politica e giustizia sono da sempre interconnesse anche se all’interno di una solida architettura di checks and balances, in cui non esiste una “casta” di magistrati professionali nettamente autonoma all’interno della democrazia elettiva.
In questi stessi giorni a Gerusalemme l’Alta Corte ha bocciato una discussa riforma della giustizia varata dal Governo Netanyahu: accusato di fatti corruttivi e al momento a capo di un Paese in guerra. Il verdetto è stato però contrastato (8-7): sulla Corte di sono scaricate le tensioni che – già prima del 7 ottobre – attraversano Israele sulle svolte che la maggioranza parlamentare di destra intende imprimere alla democrazia dello Stato ebraico. Riforme che le forze della sinistra laica oggi all’opposizione giudicano autoritarie ed eversive. In Israele (dove non esiste una Costituzione organica scritta) la Corte Suprema è composta da 15 membri, nominati dal presidente della Repubblica dopo una selezione a maggioranza qualificata da parte di un comitato composto da tre membri in carica della Corte, due ministri del Governo in carica, due parlamentari in carica e due avvocati iscritti alla Bar Association nazionale. I candidati devono essere magistrati ordinari da almeno cinque anni o avvocati da almeno dieci e tutti devono essere presentati da un “giurista eminente”. I giudici restano in carica fino a 70 anni e non possono essere rimossi se non attraverso una complessa “procedura di disciplina”.
A Londra (senza Costituzione) la Corte Suprema del Regno ha funzioni ristrette rispetto ad altri grandi Paesi ed è di fatto una magistratura ordinaria di ultima istanza, non di primo profilo costituzionale. Ciò tuttavia non ha impedito alla Corte di pronunciarsi su questioni ad altissima temperatura politica: contro l’allora premier conservatore Boris Johnson che voleva sopprimere un dibattito parlamentare finale su Brexit; e, poche settimane fa, contro la decisione del Governo Sunak di deportare in Ruanda immigrati richiedenti asilo (la vicenda ha contribuito alle dimissioni del ministro dell’Interno Suella Bravern). L’assetto attuale della Corte è recente: risale solo al 2005 con la riassegnazione di alcune funzioni della Camera non elettiva dei Lord (tutti i 12 membri attuali hanno infatti il titolo di “lord” o “lady”). Il processo selettivo dei giudici è affidato a una “commissione indipendente”, composta a maggioranza da magistrati: i justice oggi in carica sono giuristi, in buona parte formati a Oxford e Cambridge e con esperienza di magistrati nel regime britannico di common law.
A Parigi, il Consiglio costituzionale dovrà valutare la legittimità di una controversa riforma dell’immigrazione, sulla quale il Governo – presieduto da Emmanuel Macron – è in bilico, avendo ottenuto la maggioranza parlamentare solo con i voti della destra di Marine Le Pen. Lo scorso aprile il Consiglio ha considerato legittima l’approvazione – inizialmente per decreto – di una riforma delle pensioni molto contrastata a livello politico-sociale. Un Consiglio dai connotati più politici che giuridici è composto di diritto dagli ex presidenti della Repubblica che lo desiderino (ma sia Nicolas Sarkozy, sia François Hollande hanno declinato), mentre nove consiglieri vengono nominati – con riserva di tre ciascuno – dal presidente della Repubblica (elettivo a suffragio diretto), dall’Assemblea Nazionale (idem) e dal Senato (elettivo da parte delle amministrazioni locali). In questo momento ne fanno parte due importanti ex premier: il socialista Laurent Fabius (al vertice del consiglio) e il gollista Alain Juppé. I consiglieri restano in carica nove anni.
Non da ultimo, a Berlino la la BVerfG ha appena suscitato forte onde telluriche sul terreno politico, ribadendo il divieto al Governo rosso-verde di Olaf Scholz di operazioni di extra-indebitamento, anche nell’eccezionalità di uno scenario di guerra. La Corte costituzionale federale è composta da due “senati” di otto membri che interagiscono nella gestione dei singoli dossier. I giudici sono nominati con maggioranza qualificata dal Bundestag (Camera elettiva principale) e dal Bundesrat (Camera federale dei Lander). Restano in carica al massimo 12 anni fino a un’età massima di 68 anni. In questo momento il primo “senato” è presieduto da un avvocato ex parlamentare della Cdu (oggi all’opposizione parlamentare); il secondo da una giurista e magistrata.
In Italia la Corte Costituzionale ha assunto in passato decisioni numerose politicamente sensibili. Nel futuro prossimo i 15 giudici oggi presieduti da Augusto Barbera saranno prevedibilmente chiamati a esaminare l’impegnativo progetto di riforma istituzionale sul cosiddetto “premierato”. Nondimeno Meloni non ha toccato temi di merito, risollevando nei fatti una questione di fondo (“costituzionale”): come vengono scelti i giudici che mantengono l’ultima parola (di fatto insindacabile) su ogni legge dello Stato, su ogni atto del governo, perfino sul presidente della Repubblica se messo in stato d’accusa?
Meloni ha non a caso rammentato il dettato dell’articolo 135 della Carta italiana, mai modificato dal 1948: “La Corte costituzionale è composta di quindici giudici nominati per un terzo dal presidente della Repubblica, per un terzo dal Parlamento in seduta comune e per un terzo dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrative. I giudici della Corte costituzionale sono scelti tra i magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ordinaria ed amministrative, i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo venti anni di esercizio”.
Traguardato nella “costituzione materiale” della Repubblica odierna, negli ultimi 16 anni un terzo dei giudici costituzionali è stato nominato e avvicendato da una presidenza della Repubblica espressa da un partito “non di maggioranza”, all’opposizione o al governo pur senza essersi mai realmente imposto in un voto democratico (è avvenuto anzitutto nel quinquennio di Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni: quando alla coalizione di centrosinistra è stato indispensabile il “prestito” – da parte di Forza Italia – di una pattuglia di senatori guidata da Denis Verdini). Un altro terzo dei giudici è eletto dal Parlamento a maggioranza qualificata (non meno del 60 per cento dell’Aula comune): con un procedura che – certamente in questo momento – neutralizza il potere elettivo autonomo da parte della maggioranza politica eletta; ed espone invece il passaggio a ostruzionismi e compromessi forzati. Il terzo finale della Consulta resta invece appannaggio esclusivo e non mediato della magistratura “professionale”. Anche su questo versante la Costituzione formale riconosce da 76 anni un potere giudiziario indipendente (vigilato solo dal Capo dello Stato): ma è un assetto che da almeno un trentennio è costantemente esposto alla denuncia di aver generato uno “Stato nello Stato”, una corporazione opaca e autoreferenziale, capace di interferire in via pesante e arbitraria nella vita pubblica.
Non da ultimo: non c’è dubbio che a metà del secolo scorso il professore ordinario di materie giuridiche di un’università italiana conferisse una qualificazione giuridica automatica, degna della legittimità costituzionale. Ma il requisito – anch’esso vagamente “corporativo” – è ancora valido tout court in un panorama accademico nazionale molto cambiato?
In questa situazione, non c’è dubbio che Meloni abbia voluto “attaccare”: quando si profila il ricambio di quattro giudici costituzionali di nomina parlamentare.
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