L’annuncio del Natale ci ha sollecitati ancora una volta a chiederci quale sia il significato del cristianesimo oggi. A tal fine può essere utile lasciarsi provocare dal volume di Adriano Fabris, La fede scomparsa. Cristianesimo e problema del credere (Morcelliana 2023).
L’autore esordisce con una descrizione realistica della mentalità contemporanea di fronte alla vita e alla morte: “Ho vissuto la mia vita, e poi sono morto. Basta. Non è successo altro, non c’è bisogno di altro. Tutto è dato. Tutto finisce qui […] Ogni cosa diventa semplice, senza problemi. Perché, in fondo, la vita che viviamo non è poi così male. Sì, tutto sommato non è male. È una vita che si basta da se stessa. Non bisogna andare oltre, non bisogna andare alla ricerca di altro” (p. 37). Una prospettiva ulteriore non c’interessa. Questa vita non ha bisogno di essere orientata. La domanda di senso non ha senso. La diagnosi di Nietzsche sulla “morte di Dio” può essere accolta.
Un certo neo-stoicismo aiutato dalle nuove tecnologie può essere la soluzione, permettendoci di resistere alle contraddizioni della vita. Ma in questo caso non siamo in grado di confrontarci, guardando in faccia la realtà, con le sue sconfitte: “Non sempre, anzi quasi mai, riusciamo ad esserne liberi. Non sempre, anzi quasi mai riusciamo ad ottenere ciò che vogliamo, senza effetti collaterali per noi e per gli altri. Sorge allora rabbia, risentimento. Ciò che riteniamo di meritare semplicemente lo pretendiamo. Ci rivoltiamo contro coloro che non ci forniscono quanto promesso. Non pensiamo al fatto che neppure loro sono in grado di darcelo” (p. 51). Recenti episodi di cronaca ce lo ricordano tragicamente. Aggiungerei che, anche quando le cose vanno bene, non siamo veramente soddisfatti. “E con questo?” affermava Pavese dopo la vittoria al Premio Strega. Rischiamo cioè di scambiare il bisogno per sua natura saziabile con il desiderio che è aperto all’infinito. Ma il desiderio, che tende al senso della vita, non si può ridurre ai bisogni che la nostra società tecnologica, più di prima, è in grado di soddisfare. Solo se si accede alla prospettiva del desiderio si può comprendere quale sia lo spazio della fede.
A differenza del buddismo che risponde al problema del male non considerandolo come qualcosa di reale, il cristianesimo lo affronta. Ma la fede cristiana è sempre un rischio. Fabris sottolinea che, diversamente da quanto suggerisce una certa filosofia analitica della religione, la fede cristiana non è una mera credenza, perché impegna tutto l’uomo, non solo la sua razionalità. Essa esprime, invece, una relazione in cui ci troviamo inseriti. Da credenza diviene propriamente fede: “[…] l’ambito del senso, a cui la fede dà accesso, è qualcosa che non riguarda solo la teoria […]. Richiede un’esperienza coinvolgente, in cui iniziativa e accettazione, attività e passività, si trovano intrecciate fra loro” (p. 61).
Prendendo le distanze dalla concezione moderna dell’individuo centrata sulla soggettività, occorre affermare il primato della relazione. Fabris si sofferma sulla differenza e la polarità esistente fra la fides qua creditur (la fede come atto del credere) e la fides quae creditur (il contenuto della fede). Occorre mantenere viva la tensione fra entrambe le dimensioni. Se si sottolinea prevalentemente il primo aspetto, la fede diventa qualcosa di soggettivo. La mentalità scientista e tecnologica allora prende il sopravvento. Si tratta, invece, di ripensare la fede come modalità eminente della strutturale relazionalità del nostro essere e come specifica espressione religiosa di tale relazionalità. Lo stesso mio essere è qualcosa di relazionale e in sempre nuove relazioni si realizza (p. 80). L’affidamento è possibile perché questa realtà, questa persona, queste persone sono meritevoli di fiducia. Ma la fides quae creditur comporta un coinvolgimento nella consapevolezza che certi “contenuti” sono espressione e traduzione provvisoria di una differenza inassimilabile (p. 88). La fede autentica si colloca tra scetticismo e fondamentalismo, che per timore del nuovo si chiude nel passato. Entrambi negano la relazione.
Il cristianesimo costituisce oggi un’alternativa affascinante. Esperienza dell’impossibile in questo mondo, religione trasgressiva per eccellenza. Nella sua prospettiva, neppure il male è un dato di fatto. È sempre possibile il perdono e si può sempre far diventare il male occasione di bene. Invece, “se la fede scompare […] resta la tendenza compulsiva di rendere possibile l’impossibile mediante l’uso della forza: senza aver ben chiaro che questa forza non è sotto il nostro controllo. E così l’essere umano si trova a dover chiedere perdono, prima o poi, non tanto per i suoi limiti, ma per la sua arroganza” (p. 128). Si rischia, così, di pretendere troppo da sé o dagli altri. Ma, in fondo, l’impossibile da invocare nella fede non è ciò che è pur sempre adeguato alla vera natura dell’uomo, in quanto aperto all’infinito?
Per coltivare quest’apertura all’impossibile occorre, tuttavia, che qualcuno annunci e testimoni questa possibilità. Occorre oggi una comunità ecclesiale che esalti il rischio della libertà individuale e della reciproca testimonianza, aiutandosi a resistere alle sirene del tecno-capitalismo. L’annuncio della nascita, della morte, della risurrezione di Gesù e altri eventi connessi, come la conversione di san Paolo, nella loro paradossalità non si possono facilmente eliminare dalla nostra storia. Siamo sempre di fronte a questa sfida, se qualcuno oggi con la sua vita la fa balenare come risposta imprevedibile e insperata, ma paradossalmente adeguata, alla domanda radicale di senso che è poi il nucleo più nostro di quello che siamo.
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