Il mondo moderno ci sta lentamente abituando a convivere con stati di eccezione inframezzati da emergenze continue: climatiche, pandemiche, economiche. Alcune sono parzialmente vere, altre sicuramente amplificate. L’esperienza del Covid-19 sta lì a ricordarcelo. Ancora pochi giorni fa illustri virologi ci ammonivano che avremmo avuto milioni di contagiati dal virus. Sappiamo come è andata a finire, con La Stampa che si è dovuta arrendere e titolare “Si sgonfia l’ondata Covid (-32%)”. È forse un caso o è invece voluto che, in mezzo a tale confusione, le informazioni sulle emergenze vere finiscano per essere annacquate nel chiacchiericcio indistinto del gossip giornalistico. Ed è probabilmente questo ciò che è capitato a una notizia, comparsa nel 2021, buttata là e mai più né ripresa né tantomeno approfondita, a cui comunque è stato dato ampio risalto nei titoli: “Aumentano in tutto il mondo i tumori tra i giovani: +80% negli ultimi 30 anni”, “In aumento i casi di tumore tra gli adolescenti e i giovani adulti”, “Tumori in netto aumento specialmente fra i giovani adulti”.
Semplici statistiche ci restituiscono il quadro in tutta la sua straordinaria drammaticità. L’incidenza di numerosi tumori è cresciuta tra il 1990 e il 2019 – nelle fasce di popolazione comprese tra i 20 e i 50 anni – di circa l’80%. Fortunatamente, a un tale incremento non risponde un aumento paragonabile nei tassi di mortalità che, rispetto al periodo precedente, aumentano “solo” del 28%. L’incremento riguarda specifiche “coorti” di persone – gruppi individuati da intervalli generazionali – e mostra come, al di sotto dei 50 anni, si osserva una continua crescita di un buon numero di tumori: mammella, polmone, tumori gastro-intestinali (colon, pancreas, fegato, stomaco), utero, cute.
L’incremento è destinato a salire e si calcola che per il 2040 raggiunga mediamente un ulteriore +45% rispetto ai dati del 2020. Il problema è stato sollevato con autorevolezza da Nature (“Is early – onset cancer an emerging global epidemic?”), e riconfermato poche settimane fa da BMJ Oncology, così come da altre importanti riviste scientifiche. Secondo le analisi dello IARC (Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro), si prevede un aumento del 52% a livello mondiale e del 26% in Europa per il 2040.
Fig. 1. Incidenza dei tumori a tassi standardizzati (numero di casi/100.000 abitanti). È chiaramente evidenziabile come l’aumento dei tumori nelle fasce più giovani delle popolazioni (20-49 anni) riguarda prevalentemente le regioni a più elevato sviluppo industriale ed economico (USA, Canada e Europa)
I dati mondiali sulla mortalità sono ancora più preoccupanti: ogni anno muoiono più di 10 milioni di persone per cancro, e per il 2040 si prevede un aumento della mortalità complessiva del 68% a livello mondiale e del 31% a livello europeo. In termini assoluti, l’aumento dei casi tra i più giovani si traduce in 3,26 milioni di casi nel solo 2019. Paradossalmente sono proprio le nazioni più “progredite” ad essere interessate dal fenomeno, il che già suggerisce che c’è qualcosa che non va nel modo di vivere delle nazioni opulente e “scientificamente avanzate”.
Cosa vogliono dire queste cifre in termini pratici? Quest’inedito incremento dei tumori tra i più giovani costituisce un evento cui gli oncologi erano ampiamente impreparati. Abbiamo sempre ritenuto che i tumori fossero dovuti a un complesso multifattoriale di elementi che, solo dopo una lunga latenza (10-20 anni), determinassero lo sviluppo della malattia. Ora ci troviamo di fronte ad un profilo epidemiologico che indica come l’esposizione ai fattori di rischio sia avvenuta molto prima di quanto generalmente si ritenga.
Questo comporta due ordini di conseguenze.
In primo luogo, i tumori non possono essere più considerati come una patologia strettamente legata all’invecchiamento generale della popolazione. Infatti, nonostante la quota di persone di età superiore ai 65 anni sia venuta aumentando considerevolmente nelle nazioni occidentali, è perlomeno paradossale che in questa fascia di età non sia stato rilevato alcun incremento. Siamo in presenza di un fenomeno nuovo che riguarda specificamente le generazioni nate dal 1980 in poi. Il fenomeno è quindi sicuramente correlato ai cambiamenti nell’esposizione ai fattori di rischio nei primi anni di vita e/o nella giovane età adulta. Ed è interessante rilevare come si tratti di qualcosa di specifico, considerato che queste esposizioni non hanno verosimilmente interessato gli anziani.
Addendum: contrariamente alla vulgata, non sono qui in gioco le mutazioni geniche, considerato che il patrimonio genetico non differisce ovviamente tra le diverse classi di età. Inoltre, sappiamo che le mutazioni ereditarie contribuiscano solo nel 2-7% dei pazienti adulti affetti da cancro e questa prevalenza non è in aumento. Il fenomeno sottolinea quanto siano importanti le componenti non-genetiche nel cancro. Un’evidenza già rimarcata nel corso degli ultimi trent’anni, ma che è stata passata sotto silenzio, dato che i grandi gruppi farmaceutici hanno avuto l’interesse a concentrare l’attenzione su specifiche mutazioni per le quali assicuravano di avere pronto “l’antidoto magico”. Come ben noto, purtroppo, quelle terapie basate su specifici bersagli (target-based treatment), non hanno apportato che modesti benefici, limitati a piccoli sottogruppi di pazienti.
In secondo luogo, la comparsa di questa nuovo picco nell’incidenza tumorale avrà conseguenze importanti sulla terapia. Finora sapevamo che i tumori presentavano due picchi di incidenza: tra i 3 e i 15 anni di età (tumori del sangue, dell’osso e del cervello, per citare i più frequenti); e dopo i 60-65. Adesso la strategia diagnostica ed interventistica dovrà essere ripensata per intercettare – il più precocemente possibile – tumori maligni che compaiono in età giovanile e che, generalmente, presentano una maggiore aggressività e più gravi sequele anche dopo la guarigione. Il National Cancer Institute ha urgentemente posto la questione in termini di “provocative questions” già dal 2020, segnalando le due criticità più rilevanti: a) capire cosa sia all’origine di questa vera e propria “epidemia”; b) identificare nuovi biomarcatori di malattia e definire percorsi diagnostici che possano integrare nella loro formulazione i nuovi fattori di rischio.
Il problema è che in merito a questi fattori di rischio la confusione regna sovrana. Gli studi epidemiologici hanno messo in evidenza alcuni elementi – obesità, sindrome metabolica, inquinamento atmosferico – peraltro da sempre conosciuti. Certo, alcune preoccupanti novità sono emerse, ma quello che è dirimente è che quest’insieme di fattori (il cosiddetto “esposoma”) agisce durante fasi iniziali dello sviluppo della persona, quando le strutture organiche mostrano una suscettibilità ai cancerogeni di gran lunga superiore a quella rilevata nelle persone più anziane.
Questo è un aspetto di valore assolutamente strategico. Sappiamo oggi che molte malattie croniche – incluso il cancro – prendono piede nel corso della vita intrauterina e nei primi 2-5 anni dalla nascita. Questa evidenza è venuta a confermarsi per numerose malattie, incluso i tumori. I primi periodi di vita sono caratterizzati dall’estrema plasticità del nascituro/neonato (molti organi e funzioni richiedono anni per giungere a maturazione) cui corrisponde un’inusitata sensibilità nei confronti di numerosi fattori tossici e cancerogeni. Non c’è paragone tra gli effetti negativi secondari all’esposizione ai fattori cancerogeni di tessuti ed organismi considerati nelle loro prima fasi di vita, rispetto a quanto avviene in individui adulti. Le alterazioni indotte in questo periodo in qualche modo pre-costituiscono una configurazione complessiva che, in futuro, risulterà favorire lo sviluppo di numerose malattie croniche, come i tumori, ma anche il diabete, le malattie cardiache ed altre ancora.
È proprio ponendo attenzione allo specifico dei primi anni di vita che – accanto ai fattori cancerogeni già noti da tempo – è venuto emergendo il ruolo di un insieme di comportamenti e/o sostanze nell’induzione della trasformazione tumorale. Per cominciare, è stata messa in evidenza l’importanza dell’inquinamento dei cosiddetti distruttori endocrini, molecole ad azione ormonale che tendono ad accumularsi lungo la catena alimentare poiché non degradabili, rilasciate nell’ambiente in elevate quantità a causa di uso farmacologico improprio o connesse a specifiche lavorazioni industriali. Queste sostanze – spesso veicolate dalla madre al feto durante la vita intrauterina – sono ritenute responsabili di numerose affezioni e malformazioni legate allo sviluppo endocrino e riproduttivo.
Un secondo gruppo di fattori, ancora poco studiato ma potenzialmente di grande importanza, ha a che fare con alcuni stili di vita e abitudini lavorative. Parliamo qui delle alterazioni cronobiologiche indotte dal fatto che i giovanissimi dormono meno e male, rispetto ai loro coetanei di 50 anni fa, talvolta con inversione dei ritmi circadiani soprattutto in coloro che lavorano di notte. I giovani e giovanissimi sono inoltre esposti ad una quantità di radiazioni elettromagnetiche (parliamo di telefonini) assolutamente inusuale (che le vecchie generazioni non hanno mai sperimentato) e che molti studi sperimentali ed epidemiologici hanno posto in relazione di causalità con lo sviluppo successivo di tumori.
Un capitolo noto, ma che si è arricchito di nuovi dati, riguarda il rapporto tra alimentazione e tumori. Tutti gli studi considerati hanno confermato come il consumo di cibi ad alto valore glicemico (in particolare le bevande), l’obesità, l’assunzione di super-alcolici – spesso in associazione con stili di vita sedentari – abbia un ruolo di straordinaria importanza. Le alterazioni dei comportamenti alimentari – tra cui la diffusione di modelli basati sul fast food e sullo junk food – si associano inoltre a trasformazioni negative del nostro microbiota, il complesso di microbi che, in rapporto simbiontico con l’organismo, concorre a preservarne le funzioni e il sistema immunitario. L’adozione di regimi alimentari sbagliati danneggia direttamente il microbiota e non a caso 8 su 14 dei tumori per i quali è stato registrato il maggiore aumento di incidenza sono tumori del tratto gastrointestinale.
Queste brevi note dovrebbero suonare a monito per la gravità dei problemi che sollevano. Stiamo parlando di milioni di casi e di milioni di morti che si paventano nell’alvo di una tendenza epidemiologica destinata a durare stabilmente, ben più di una epidemia virale. Certo non c’è vaccino contro questa minaccia. E non può bastare la prevenzione che, peraltro, abbiamo trascurato di fare negli ultimi anni. E disgraziatamente, dato che non c’è una soluzione semplice da vendere al pubblico, l’argomento viene passato sotto silenzio. Non mi pare che ci siano orde di tele-oncologi che gridano al disastro e richiedono l’adozione di misure draconiane per fronteggiare la nuova “epidemia”. Eppure dovrebbero, perché questa non va sottovalutata.
Perché tacciono allora mass-media e politici? Per ignoranza, certo. Anche. O forse perché affrontare il mostro alle sue radici implicherebbe il rimettere in discussione la vulgata modernizzante su cui riposa il fragile equilibrio delle nostre società sempre più malate. Scopriamo ora che forse è proprio a causa del cosiddetto “progresso” che ci ammaliamo (e moriamo) di più. Ma chi avrà il coraggio di dirlo ai potenti, convinti che, con una pillola miracolosa, come diceva Jannacci, “passa tutto, anche il cancro”?
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