In zona Cesarini è partita la costruzione del 4+2, cioè di un filone formativo dedicato alla formazione per il lavoro della durata di 4 anni in cui confluiscano istituti tecnici, istituti professionali e centri regionali più 2 anni di formazione terziaria partendo dagli attuali ITS.
Obiettivi: da un lato rifocalizzare maggiormente le attività formative sul lavoro, dando vita anche ad un percorso secondario più breve; dall’altro collegarvi una formazione terziaria, anch’essa esplicitamente orientata al lavoro, superando i limiti degli attuali ITS e la latitanza delle lauree professionalizzanti.
La quota di giovani adulti (25-34 anni) senza un’istruzione secondaria superiore è scesa in Italia dal 26% al 22%, ma al Sud la percentuale sale al 25% rimanendo comunque alta. I NEET, secondo l’ultima rilevazione dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, sono attualmente 140mila, di cui il 43,2% al Sud. Inoltre la quota di iscritti a percorsi professionalizzanti (ITS, IPS e CFP regionali) sta lentamente ma inesorabilmente scendendo negli ultimi anni, essendo superata in percentuale dalle forme più diverse di licealità.
La storica forma della sperimentazione permetterà di scavalcare l’evidente impossibilità di mettere questa struttura a regime per tutte le scuole, visto che le iscrizioni si chiudono a fine gennaio. In proposito i soliti cultori della materia – ormai, a dire il vero, in via di sparizione – potrebbero ricordare che questa consuetudine risale a non moltissimi anni fa, non è scritta nelle tavole della legge e fu assunta per permettere il regolare avvio dell’anno scolastico. Adesso la formazione delle classi è più tempestiva, ma il problema è che non si riesce a mandarvi gli insegnanti.
Sarà interessante vedere, dall’adesione delle scuole, l’aria che vi tira. La situazione non è semplice, perché viene richiesta giustamente l’esistenza di una rete fra scuole, formazione professionale regionale, ITS ed imprese difficile da improvvisare. Soprattutto il Sud, che avrebbe più bisogno di questo tipo di formazione, ha regioni da sempre latitanti, meno imprese e meno ITS. D’altra parte la formazione professionale statale è in crisi ovunque e perciò può cogliere questa occasione di rilancio, anche puntando sull’accorciamento dei percorsi di un anno.
È ormai evidente che la cosiddetta dispersione esplicita (bocciature ed abbandoni) riguarda ceti sociali che, vincolati al proseguimento dall’obbligo se non hanno già raggiunto l’età della liberatoria perché bocciati o pluri-bocciati, scelgono le vie formative che ritengono più semplici e concrete ed invece si trovano davanti percorsi anche impegnativi di formazione generalista. È proprio questo che fa da ostacolo alla frequenza proficua scolastica e che porta all’abbandono. Non si tratta di un residuo di vecchie impostazioni accademiche, ma del ben intenzionato orientamento progressista che vede nella formazione generalista, specialmente in chiave umanistica, uno strumento di emancipazione sociale e nella formazione per il lavoro uno strumento di selezione e segregazione sociale, prodromo dello sfruttamento capitalistico. Un orientamento particolarmente forte nella parte meno industrializzata e moderna del Paese.
Giova sempre ricordare che si tratta di un orientamento tipico dell’Italia e che storicamente il movimento operaio ha sempre visto in una qualificata formazione per il lavoro lo strumento di emancipazione per eccellenza, anche perché coerente con lo sviluppo generale della società. Una vecchia canzone che è già risuonata nell’opposizione della CGIL, non sedata dalla tranquillizzante precisazione del ministro Valditara “a parità di organico” a proposito dell’abbreviazione di un anno: pare che la consistenza dell’organico sia, nella visione di questo sindacato, direttamente proporzionale al livello di civilizzazione del paese.
Alle schiere dell’innovazione si è tempestivamente unito il CSPI, la cui ultima elezione risale al 2015 e che potrebbe avere pertanto il buon senso di mettersi un po’ da parte. Cambiare qualsiasi cosa nella scuola italiana – non diversamente da altre parti della stessa società – sembra richiedere uno sforzo enorme.
Ma i problemi veri non mancano.
Dopo il generoso tentativo del ministro Berlinguer, si è cercato ormai da anni di abbassare la durata della secondaria a 4 anni per tutti, anche per i licei, attraverso una sperimentazione di cui però, come è avvenuto di tutte le sperimentazioni scolastiche italiane, non si è fatto un bilancio serio. C’è il rischio di andare ad una faticosa compattazione conservativa dei programmi o a tagli eccessivamente facilitanti.
Gli istituti tecnici, in crisi di iscrizioni, possono essere tentati dall’abbreviazione di un anno, potenzialmente popolare, anche se vi si sono state registrate le maggiori perplessità. Questo ircocervo nato negli anni 30, mezzo liceo e mezzo professionale, anche se oggi in declino, ha una storia rispettabile che si basa anche – dopo la liberalizzazione del ’69 – sull’accesso all’università di gran parte dei suoi frequentanti. Se questa possibilità non fosse offerta in automatico vi vedrebbe un declassamento e la perdita delle adesioni di un ceto mediano che ancora in parte vi resiste, se riesce a sfuggire alle sirene dei licei leggeri che hanno di fatto vampirizzato l’istruzione tecnica.
Fra gli istituti professionali, in crisi ancor maggiore, c’è chi teme una unificazione al ribasso. Dovrebbe essere più noto il fatto che, sia in PISA che in Invalsi, il livello delle prove delle competenze di base dei centri di formazione regionali è pari o superiore a quello degli istituti statali.
Dall’altra parte anche l’Istruzione e formazione professionale regionale è tutt’altro che rose e fiori. Cinque regioni non hanno ad esempio ancora istituito il quarto anno, che pure era previsto dalla legge istitutiva nazionale, ovviamente necessario per la riuscita del 4+2. Si è poi visto che metterle insieme dal basso – con la Conferenza Stato-Regioni ad esempio – non ha portato a molto anche sui temi dalla armonizzazione fra di loro. Perciò ci vorrà una mano ferma centralizzata – spiace doverlo dire – per garantire al progetto un minimo di fattibilità.
Quanto al livello terziario cioè al +2, l’ultimo Education at a Glance OCSE vede per l’ennesima volta come problema dell’istruzione tecnico-professionale italiana la mancanza di fatto di questo livello, a differenza degli altri Paesi che proprio per questa ragione ci superano nella percentuale di giovani “laureati”. Gli ITS sono stati un piccolo successo ed infatti proseguono da due decenni e sono stati rifinanziati. Ma sono diffusi in modo diseguale sul territorio nazionale, sono stati dotati di una struttura ottimale ma molto complessa ed in definitiva hanno raggiunto una numerosità non abbastanza significativa ed una notorietà bassa. Portare alla convergenza istituzionale tutte le esperienze ITS fin qui maturate con un’accettabile omogeneità sul territorio nazionale non sarà impresa facile, cosi come nel caso della IeFP regionale.
L’importanza di un filone formativo di questo genere è strategica, non solo come tentativo di trovare una risposta alla dispersione dei singoli, ma perché potrebbe contribuire, attraverso la formazione di una forza lavoro preparata, al ritorno allo sviluppo economico del nostro Paese, che al momento sembra destinato ad essere il super-Paese dei balocchi del Paese dei balocchi europeo (cuochi, albergatori, oltre che una pletora di avvocati e comunicatori). Il ricco Occidente attribuisce alla scuola solo poteri, peraltro salvifici ed eccessivi, nel merito della redistribuzione, cioè dell’equità, e non la vede più come strumento di sviluppo, perché pensa di averne già raggiunto il top e perché lo affida ai garage della Silicon Valley. Diversamente dai paesi dell’EastAsia che invece puntano sulla scuola per svilupparsi, come peraltro stanno facendo, e per questo hanno scalato le classifiche PISA.
In Occidente si parla solo di equità ed in fondo l’Italia non è messa male, solo che ha raggiunto questo risultato quasi azzerando le eccellenze. Ed anche chiudendo gli occhi davanti all’esistenza di uno zoccolo duro di auto-espulsi o approcciando il problema solo in termini pietistici, a causa della mancanza (storica?) di rispetto per la cultura del lavoro.
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