Fra vecchi e nuovi, sono una moltitudine i fili che legano Bruxelles e Roma, l’Italia e le istituzioni europee. E fra quelli più recenti ce ne sono due che meritano di essere tenuti sotto osservazione in modo particolare, anche perché in qualche modo potrebbero influenzarsi, se non proprio incrociarsi. Il primo va da sud a nord, e vede ritornare sulla scena Mario Draghi. Il secondo, nella direzione opposta, vede l’intenzione di Paolo Gentiloni di rientrare in patria al termine del suo mandato di commissario europeo, senza presentare la propria candidatura alle elezioni di giugno per l’assemblea di Strasburgo.
Perché si intrecciano questi fili? Perché si muovono lontani dall’attuale maggioranza di governo, e quindi segnano un’attenzione per il nostro Paese che non collima con la visione politica di Giorgia Meloni e soci.
La chiamata di Ursula von der Leyen all’ex premier ha sorpreso molti osservatori, ma probabilmente a torto. Non esisteva personalità più prestigiosa cui affidare un rapporto sulla competitività europea che suona tanto come un’operazione elettorale, in vista di un possibile secondo mandato della presidente della Commissione europea. E viste le prime mosse di Draghi, questa ipotesi deve essere tenuta in seria considerazione. Grazie a questa investitura, infatti, l’uomo del “whatever it takes” non solo ha incontrato i commissari europei e i vertici delle associazioni imprenditoriali. Si dimentica infatti che l’inizio della sua fatica è stato accompagnato da un articolo sull’Economist che ha avuto scarso rilievo mediatico, soprattutto in Italia, ma che assomiglia a un programma di governo per l’Europa. Un programma molto centralista, nel quale l’unione monetaria dovrebbe essere completata con un’unione fiscale. Più capacità di spesa per affrontare le grandi sfide, difesa, transizione ecologica e digitalizzazione.
Ma se von der Leyen sposerebbe certo volentieri le idee di Draghi, cosa ci guadagnerebbe l’ex premier italiano? Su questo si possono fare solo ipotesi, ma quella più interessante vede in ballo la poltrona di presidente del Consiglio europeo, attualmente occupata da Charles Michel. Sul nome di Draghi potrebbero convergere molti capi di governo, in una situazione di grande frammentazione. E Giorgia Meloni difficilmente potrebbe opporsi, anche se la nomina risulterebbe ingombrante in sé, oltre a precludere nella futura Commissione l’assegnazione a un commissario europeo nominato dal centrodestra di un portafoglio di rilievo. C’è pure un precedente, la scelta di Donald Tusk quando la Polonia era già governata dal PiS di Duda e Kaczyński.
E il discorso di andata e ritorno dei commissari europei ci porta a Paolo Gentiloni, il cui rientro sulla scena della politica italiana entro l’autunno alimenta il dibattito dentro il Pd nella vasta galassia di oppositori e perplessi da Elly Schlein. Visto che la leadership della segretaria non decolla, di Gentiloni si parla tanto come possibile segretario quanto come punto di caduta del “campo largo”. Uno dei pochi in grado di mettere insieme democratici e pentastellati.
Molto dipenderà dall’esito elettorale del 9 giugno: Per il Pd la quota salvezza è rappresentata dal 20%. Una Caporetto sarebbe invece rappresentata dal sorpasso da parte di M5s. Schlein deve soppesare le sue mosse, a partire dalla scelta di capeggiare le liste democratiche o meno. Il parere contrario di Prodi pesa, assai più degli avvertimenti di Conte e di Bonino a non ingannare gli elettori. Ma la tentazione è forte. Un rischio, ma anche un’opportunità.
La rincorsa alle europee, in cui la Schlein si gioca tutto, o quasi, comincerà a fine settimana da Gubbio, nel ritiro/seminario dei deputati Pd, curiosamente convocato nello stesso albergo di lusso dove una ventina di anni fa Silvio Berlusconi diede vita alla prima scuola di formazione politica di Forza Italia.
Gentiloni rimane, al pari di Draghi, nella riserva delle istituzioni comunitarie. Se verranno richiamati in servizio oggi non si può prevedere. Ma la sola loro ombra non promette nulla di buono, né per Schlein, né per Meloni.
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