Questo inizio di 2024 ci ha regalato una serie di film capaci di sguardi sorprendenti sul tempo che viviamo. Bentornati al cinema, verrebbe da dire, dopo la lunga stagione dove siamo stati soggiogati dalle piattaforme con la conseguente sedentarietà davanti agli schermi tv. Il cinema in questo inizio 2024 ci ha dato appuntamento fuori casa, in sale che sono tornate finalmente a riempirsi rinnovando un rito collettivo che credevamo ormai perduto per sempre.
In sequenza sono arrivati “Il ragazzo e l’airone”, l’ultimo film del grande Miyazaki, “Foglie al vento” di un Kaurismaki in stato di grazia e “Il male non esiste” pellicola spiazzante di uno dei più geniali registi di oggi Ryûsuke Hamaguchi (che nel 2021 ci aveva stregato “Drive my car”). Ed è tornato in particolare sul grande schermo Wim Wenders, visto l’ultima volta con il film su Papa Francesco “Un uomo di parola”, nel 2018. Il regista tedesco ha prodotto e diretto “Perfect days”.
La vicenda è di una semplicità assoluta: il protagonista, Hirayama, è un addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Shibuya, un quartiere di Tokyo. Non sappiamo nulla della sua storia, ma lo vediamo vivere da solo in una casa povera e monacale nei sobborghi della capitale giapponese. Il regista lo segue nella sua routine quotidiana a cui si applica con una dedizione che non contempla deroghe.
All’inizio la ripetitività delle sue giornate può lasciare interdetti. Ma quando per la terza mattina consecutiva lo vediamo uscire di casa, alzare come sempre gli occhi e guardare il cielo con un senso di gratitudine e di silenziosa felicità, capiamo che quella ripetitività custodisce un’imprevista pienezza di vita. C’è una misteriosa coscienza che gli permette di tenere quella rotta quotidiana a testa alta, anche se intorno il mondo lo assedia con gli schizzi di mille diverse follie. C’è l’inquietudine dei ragazzi di cui trova le vestigia ogni mattina sui luoghi delle sue pulizie; c’è l’irruenza del suo giovane aiuto che non accetta di stare al gioco di quel lavoro così umile e lo abbandona da un giorno all’altro; c’è l’uomo in carriera che arriva caracollante ai bagni, devastato dalla vita fin dal primo mattino. Ma per Harayami, com’è stato giustamente scritto, quei bagni sono dei piccoli “templi del bene comune” e come tali li rispetta e li pulisce con una puntigliosità che riempie noi spettatori di meraviglia.
Tra l’altro veniamo a sapere che la sua vita è segnata da una profonda ferita che lo ha portato a rompere con la famiglia di origine e in particolare con il padre. Possiamo solo immaginare che in quella famiglia, certamente molto benestante, la sua scelta di un ascetismo contemporaneo sia risultata del tutto incompresa e anche pesantemente osteggiata. In Harayami si avverte il dolore per quanto vissuto, ma mai un risentimento: il bene sperimentato è più forte del male subito. Se ne accorge la nipotina che corre a rifugiarsi da lui, scappando per qualche giorno dalla ricca casa in cui si trova a disagio: lei capisce che nel cuore di quello zio c’è qualcosa di prezioso per la sua vita. E tra le poche parole che Harayami si concede le più significative sono per lei: “La prossima volta è la prossima volta, adesso è adesso”. È l’adesso, il qui e ora, la dimensione che conta.
Harayami è un uomo a cui non servono i discorsi. Parla con gli sguardi, come l’ultimo, lunghissimo che chiude il film; che ha garantito il premio a Cannes per il bravissimo attore che lo interpreta, Kôji Yakusho. Uno sguardo segnato dall’imprevista innocenza di un sorriso. Nella memoria ci restano ancora di più quegli altri suoi sguardi di ogni mattina, quando uscendo di casa osserva, pieno di ammirazione, le cose destarsi dal buio. E così si dispone senza nessuna riserva al suo compito quotidiano.
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