L’escalation della guerra diffusa che sta insanguinando il vicino Medio oriente (aggravata dai nuovi scontri tra Iran e Pakistan, che la Cina si è proposta di mediare) vede coinvolte le forze armate italiane in un profilo che ad oggi resta non meglio definito, tra peacekeeping e difesa proattiva, con regole d’ingaggio ancora non aggiornate malgrado il rapido evolversi nei teatri di scontro.
Uno dei fronti più caldi è attualmente il sud Libano, che dal 7 ottobre in poi ha visto crescere gli scontri tra le milizie filoiraniane Hezbollah e l’esercito israeliano. Dai governatorati del Dus e di Nabatiye, o dai territori di Rashaya e della Beqa, la pioggia di missili verso le città israeliane prossime al confine è stata incessante. Le reazioni non sono mancate, anche massicce, come quella di pochi giorni fa, quando le forze di difesa Idf hanno lanciato un’operazione combinata di artiglieria e aviazione contro decine di postazioni dei miliziani sciiti nel Wadi Saluki. Ma il lancio di ordigni dal Libano è continuato, tanto da spingere il capo di stato maggiore israeliano, generale Herzl Halevi, a dire che “le probabilità di una guerra al nord sono più alte che mai”.
In questo scenario, l’Italia vede ancora dislocati 1.169 soldati (Granatieri di Sardegna), con 368 mezzi terrestri, sette aerei e un’unità navale, in una zona che era stata definita “cuscinetto”. La recente relazione sulle nostre missioni militari in corso tratta il Libano, citando “le spinte centrifughe e la frammentazione del Paese, un quadro aggravato dalla complessa gestione e dal connesso rischio di radicalizzazione dei rifugiati siriani, rilevante fattore di instabilità regionale e internazionale con riflessi sul piano migratorio e della sicurezza degli stessi Paesi europei. La stabilizzazione del Libano tramite il sostegno alle Forze armate e di sicurezza libanesi resta prioritaria per l’azione italiana”. Ma dallo scoppio della nuova guerra in Medio oriente, la missione Unifil (United Nations Interim Force in Lebanon, headquarter a Naqoura), con più di 10mila militari provenienti da 47 nazioni diverse, è fortemente in discussione.
Unifil fu varata dall’Onu nel 1978, in seguito all’invasione del Libano da parte di Israele. Un anno dopo iniziò la partecipazione italiana, che coincise grossomodo con un lungo periodo di convivenza pacifica nella regione. Adesso lo scenario è decisamente cambiato, e l’obiettivo peacekeeping sembra tramontato nei rigurgiti di una violenza mai sopita, ed anzi alimentata costantemente dallo sciismo iraniano, che anno dopo anno ha finanziato, armato, teleguidato i suoi proxy Hezbollah.
Un altro fronte ancillare allo scontro madre Israele-Hamas a Gaza è quello del Mar Rosso meridionale, un teatro che vede l’altra milizia sciita filoiraniana, gli Houthi, minacciare dalle basi yemenite il traffico civile, commerciale, militare tra il golfo di Aden e Suez. Dopo ormai più di trenta lanci di ordigni yemeniti, le reazioni delle forze armate angloamericane si stanno moltiplicando. L’altra notte (riferiscono le agenzie) americani e britannici hanno lanciato una quarta serie di attacchi contro obiettivi in quattro aree dello Yemen, in risposta agli attacchi alle navi del Mar Rosso, colpendo i governatorati di Al-Hudaydah, Taiz, Dhamar, Al-Bayda e Saada.
Ma un portavoce degli Houthi ha replicato: “Continueremo a colpire le navi israeliane dirette ai porti della Palestina occupata, indipendentemente dall’aggressione americano-britannica”. Ha risposto il Pentagono: “Le forze americane hanno condotto attacchi contro 14 missili Houthi, sostenuti dall’Iran, che erano carichi per essere lanciati nelle aree controllate dagli Houthi nello Yemen. Questi missili su rotaie di lancio rappresentavano una minaccia imminente per le navi mercantili”. Una minaccia che ha convinto gli Stati Uniti a reinserire gli Houthi tra i gruppi terroristici, per impedire il finanziamento del terrorismo e limitare ulteriormente il loro accesso ai mercati finanziari.
In questo pericoloso quadrante, che viene evitato con cura da buona parte dei traffici marittimi, costretti alla circumnavigazione dell’Africa, con una micidiale lievitazione dei prezzi di trasporto e in generale dell’import-export, l’Italia vede (quasi) impegnate due unità della Marina Militare, le fregate di ultima generazione Fasan e Martinengo, in realtà svincolate dalla missione Prosperity Guardian a guida statunitense, e inquadrate in Atalanta, la missione europea per il contrasto della pirateria al largo della Somalia, missione che oggi sembra destinata ad un perimetro più vasto, un campo largo che risalga la costa ed arrivi ad Aden.
E questa sarebbe la soluzione più immediata, a voler decidere rapidamente, senza aspettare la complicata risoluzione dell’Unione Europea per una flotta congiunta dei 27 operante nel Mar Rosso. A Bruxelles si stanno ancora confrontando le diplomazie e le strategie militari di Paesi con interessi, ambizioni, volontà molto diverse, che confermano una volta di più la mancanza e forse l’impossibilità di una Difesa comunitaria. Nel frattempo, i commerci e le attività produttive di mezzo mondo sono entrati in sofferenza, l’inflazione torna a rischio impennata, e le fregate italiane dislocano con consegne difensive, in attesa di nuovi ordini.
Dall’altra parte della penisola arabica, ma giusto tra i confini iraniani e iracheni, pochi giorni fa alla base Ali Al Salem, in Kuwait, è arrivato l’italianissimo Task Group Devil, che opera con i Tornado del 6° Stormo di Ghedi, in avvicendamento con il Task Group Typhoon (Eurofighter), che è stato impegnato in operazioni di sorveglianza e ricognizione. Il trasferimento dei velivoli Tornado dall’Italia e il rientro dei velivoli Eurofighter – informa il ministero alla Difesa – è stato agevolato da un percorso costituito da KC-767A del 14° Stormo per il rifornimento in volo. Per i nostri Tornado è un ritorno al teatro kuwaitiano: il Devil è stato precedentemente schierato in Kuwait, nella base di Al Jaber dal 2014 al 2016 e dal 2020 al 2021, alternandosi con i velivoli AMX del Task Group Black Cats e i velivoli Eurofighter del Task Group Typhoon, accumulando oltre 4mila ore di volo nel corso degli anni. Istituita nel 2014 per partecipare all’operazione multinazionale Inherent Resolve (le operazioni contro lo stato islamico, tra Iraq e Siria), l’IT NCC AIR assicura un unico comando e supporto logistico per il dispiegamento sinergico e coordinato degli assetti forniti dall’Aeronautica militare e, con il dispiegamento del Task Group SAMP/T, dall’Esercito italiano all’interno della Coalizione.
Ed infine, non si possono dimenticare i circa cento militari italiani a Gibuti, praticamente proprio di fronte allo Yemen (un braccio di mare di 19 chilometri), dislocati nella National Military Support base “Amedeo Guillet”, a 17 chilometri dal confine somalo. È una base interforze, nata nel 2012, che vede la presenza di Esercito, Marina, Aeronautica e Carabinieri, con il compito principale di fornire supporto logistico alle operazioni militari italiane in Africa orientale e nell’Oceano Indiano.
Alla luce di simili impegni, non si può davvero vagheggiare una sorta di lontananza italiana dalle guerre che invece sono molto vicine e che, al di là della distanza geografica e dell’assurdo costo in vite umane, influiscono direttamente sulle economie nostre e dell’Occidente intero. Un Occidente che non riesce ancora a comprendere le istanze contrastanti nel puzzle orientale, dove le sfumature teocratiche non hanno mai trovato alcun denominatore comune, se si pensa che tra sunniti e sciiti insistono fratture simili (a volte ancora più profonde) a quelle che separano l’islam dallo Stato ebraico. Oggi proprio Israele, Stati Uniti, Gran Bretagna e i loro eventuali alleati stanno però compiendo il miracolo, fornendo un bersaglio comune a tutti i fanatismi musulmani. La missione, a questo punto, potrebbe essere la rottura di questo frastagliato schieramento, ad esempio portando a termine quel riconoscimento di Israele da parte dell’Arabia Saudita che era stato iniziato ma che s’è freezzato il 7 ottobre scorso, sotto il massacro di Hamas.
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