FINE VITA E SOFFERENZA, LO SPUNTO DEL PROF. BOTTURI
Nei giorni in cui è tornato sotto i riflettori della politica italiana il tema del “Fine vita” – per via della proposta di legge bocciata in Consiglio Regionale del Veneto che avrebbe “accelerato” l’iter di suicidio assistito già normato dalla sentenza della Corte Costituzionale – uno spunto al dibattito viene dato dal filosofo e docente Francesco Botturi su “Avvenire”, trattando il tema da un diverso punto di osservazione. «Il bene comune, come criterio di unità e di promozione del tutto sociale, legittima provvedimenti a favore della soppressione consenziente della vita? Di che cosa vive una società che accetta di gestire la morte? Il libero consenso ha maggior valore della conservazione della vita?»: così interviene l docente nella “provocazione” circa la correlazione tra suicidio assistito e diritto alla vita.
A livello filosofico, se il potere di scelta – la cosiddetta “autodeterminazione” – si propone come potere di legittimazione, allora il contenuto di tale scelta diventa di fatto indifferente, questo «perché il valore è tutto dalla parte della decisione, e perciò potenzialmente qualunque contenuto di scelta è legittimo», spiega ancora Botturi. Il filosofo sottolinea come l’esperienza del patimento, dal dolore alla sofferenza, rischia di essere “cancellata” in un contesto e dibattito del genere: «La libertà si fa giusta alleata di tutto ciò che li possono ridurre o eliminare, perché – va notato – anche la più libertaria delle libertà alla fine non è del tutto indifferente al positivo o negativo dell’esperienza… Tuttavia, una libertà tutta concentrata in sé stessa è anche in balìa di sé stessa, delle sue debolezze, delle sue illusioni, ma anche dei suoi incubi».
FRANCESCO BOTTURI: “LA CULTURA ‘SUGGERISCE’ DI TOGLIERSI DI MEZZO”
A stupire piuttosto, annota Botturi, dovrebbe essere la povertà culturale e simbolica in merito al senso profondo del dolore: «Non più cristiani e non ancora nuovi veri pagani, ricchi di nuove mitologie, noi uomini di oggi viviamo il patimento come una condizione fatale, anonima, solitaria, insensata e ragionevole solo come oggetto di manipolazione tecnica». Il dibattito sulle possibili soluzioni normative per la morte assistita – fianco all’eutanasia, come chiede da tempo il movimento radicale con l’Associazione Luca Coscioni – rilancia la domanda sul rapporto della nostra società con la malattia e il dolore: «è esperienza umana o problema tecnico da risolvere nel modo più efficiente?».
Il soffrire dell’essere umano è legato indissolubilmente alla totalità dell’esistenza: «lo specifico del soffrire umano: il suo essere in relazione con la totalità dell’esistenza, che nel suo insieme è messa a prova dalla sofferenza. Ogni patimento introduce a questa esperienza cruciale e pone l’interrogativo sul suo senso, la sua giustizia, la sua accettabilità», spiega Botturi al quotidiano della CEI a pochi giorni dal “ko” della legge sul suicidio assistito in Veneto. La denuncia posta dal professore è contro quel “predominio della mentalità tecnologica” che al giorno d’oggi suggerisce di trasformare ogni situazione «in “null’altro che” un problema da risolvere». Seppur con dolore, l’essere umano è coinvolto nella malattia e nella sofferenza e non basta la spiegazione della “tecnica” che prova ad oggettivare in modo separato dalla totalità umana. «Come il morire, anche la sofferenza è tenuta in disparte, affidata al privato individuale, povero di parole significative; oppure è spettacolarizzata, in ogni caso comunque dissolta come domanda di senso», ribadisce Botturi nel sottolineare il valore della dignità inviolabile dell’esistenza umana, messa a rischio dal predominio di una tecnica “scientista” che arriva, per paradosso, a sostenere che «se la sofferenza non deve esistere, neppure il sofferente ha ragione d’esistenza; meglio per lui sarebbe non nascere, non esser nato, morire». Chiosando l’intervento su “Avvenire”, Botturi riflette sul fatto che predisporre a livello legislativo la possibilità di decidere della propria vita sofferente «non è offrire una possibilità tecnica neutrale» e perciò «significa il prendere posizione di una cultura che non sapendo più come rispondere suggerisce all’interrogante di togliersi di mezzo».