La speranza è la virtù più difficile, forse l’unica difficile, ammette Péguy sprigionando nel suo linguaggio poetico un’intuizione carica di realismo, attingibile nell’humus esistenziale. Emmanuel Exitu nel suo recente romanzo ispirato alla vicenda umana e professionale di Cicely Saunders, figura nota per aver dedicato tutta la vita alla cura dei malati inguaribili alleviandone con esiti straordinari il dolore, pare mosso dalla stessa intuizione: la speranza il più delle volte ha il sapore di una sfida ardua, impossibile, eppure è alimentata da un desiderio inestinguibile che spinge a cercarla con ostinazione, ad attenderla senza cedimenti fino alla possibilità riconoscerla in un palpito reale e inconfondibile.
Questa vibrazione del cuore detta il ritmo del romanzo Di cosa è fatta la speranza (Bompiani, 2023) che inizia con l’impatto di Cicely Saunders con i feriti dai corpi dilaniati che giungevano dai fronti di guerra. Partita da Londra la mattina del 15 ottobre 1943 con le allieve infermiere dell’ultimo anno della Nightingale Training School for Nurses, si adopera senza tregua nel tentativo di lenire la sofferenza di soldati agonizzanti, abbandonati anche dai medici sordi e indifferenti alla sua richiesta di cure e trattamenti sedativi. Il senso di totale impotenza di fronte a situazioni atroci le rende insopportabile l’ottusità di operatori cinicamente funzionali a un sistema basato su protocolli inadeguati e inefficaci: “Hanno mai sperimentato sulla loro pelle cosa significhi aspettare la morfina? E hanno mai domandato ai pazienti, direttamente a loro, come si sentivano davvero? I medici pretendono sempre di spiegare ai pazienti come dovrebbero sentirsi”.
Le esperienze più sconfortanti non fanno arretrare di un millimetro la determinazione di Cicely che per un tempo che le sembra infinito, nel susseguirsi dei giorni e delle notti, “ha tenuto duro e continuato a fare scrupolosamente e ripetutamente bene il suo dovere, cioè niente. Ha continuato a guardare il paziente. Osservarlo, anzi. E asciugarlo. E dargli un po’ d’acqua. E dire qualcosa, milioni di no più che altro. E tenergli la mano. È stata lì con lui, ecco”. Un’esperienza preziosa per lei che, da infermiera e successivamente da medico, avrebbe dedicato tutta la vita alla cura dei malati più gravi, quelli che hanno i giorni contati e per i quali, secondo una convinzione prevalente, non si può fare più niente.
L’avventura di Cicely Saunders matura proprio in questa sfida al dolore, al non senso, alla disumanità che censura quel che accade, che censura le domande brucianti sottese in ogni esistenza, in particolare sul limitare della morte.
La propensione a privilegiare l’osservazione del reale, rafforzata per altro dagli insegnamenti di Mrs Gatlin direttrice della prestigiosa Nightingale School, di fatto accompagnerà ogni passaggio di un percorso che segnerà traguardi significativi sul versante delle cure palliative e sulle procedure tese a migliorare la qualità della vita dei malati all’ultimo stadio (tutt’oggi ritenute punto di riferimento dall’OMS) e che porterà alla realizzazione, nel 1967, del primo moderno hospice concepito per pazienti terminali degni di essere amorevolmente accompagnati fino all’ultimo istante di vita. Conquiste tutte riscontrabili attingendo al materiale biografico di Cicely Saunders, che nella descrizione di Exitu, autore televisivo che ha creato sceneggiature e documentari di successo, appare più che mai viva, coinvolgente nel suscitare immedesimazione, emozione, sorpresa. Par di vederla lungo il viaggio introspettivo condotto dall’autore che ne mette a nudo l’anima scavando nei suoi pensieri, sguardi, ribellioni, vulnerabilità, innamoramenti, prostrazioni e rinascite. Come avverte l’autore in una nota nelle ultime pagine, un romanzo non è una biografia: “non ho realizzato la cronaca di una vita, ma ho partecipato a una vita”.
E l’immedesimazione scatta anche in chi, inoltrandosi nelle oltre 400 pagine della trama, ritrova con commozione schegge di un vissuto personale e a volte intuisce scintille di verità solitamente oscurate da apparenze e pregiudizi che paralizzano il pensiero. Nelle situazioni drammatiche, per esempio, quando il dolore della morte affiora con prepotenza, senza consolazione e senza senso, un sussulto di realismo della protagonista produce una consonanza confortante, induce a far proprio lo stesso sguardo e lo stesso cuore di fronte a un accadimento incomprensibile e doloroso: “Potremo tentare di fare il bene, però … Il bene sì. Quello si può sempre fare, si può sempre tentare. Se anche il senso non lo vedi … Si può sempre scegliere … Il bene esiste proprio lì, davanti a te, in mezzo al silenzio nero dell’assurdo”.
Il travaglio della fede che riconoscerà nel suo percorso (atea, si converte al cristianesimo aderendo alla chiesa anglicana), può essere inquietante e mettere continuamente alla prova, eppure spinge ad attraversare un “buio che brilla di mistero”. Per Cicely Saunders la vita che scorre inevitabilmente fra tempeste e schiarite non è mai un teorema da risolvere, ma una strada che si ritrova sotto i piedi, una strada da percorrere fino in fondo, fino alla meta più o meno immaginata, attesa, promessa. Anche l’hospice, progettato con creativa caparbietà e finalmente realizzato, diventerà per lei una realtà tutta da riscoprire, cioè “un posto dove non si va a morire, ma un posto dove si va a vivere fino all’ultimo istante con dignità”.
E questo cambiamento si vede, si tocca, a volte suscita persino un sorriso divertito, come quando la dottoressa Winter, medico capo della Sanità di Londra in visita all’hospice per un’ispezione, girando fra reparti deserti e i letti vuoti chiede spazientita: “Dove sono i morenti?”. “Siamo qui” rispondono i malati che avevano appena interrotto le prove di canto. E il segreto dell’innovazione che riconosce anche nell’approssimarsi della morte momenti preziosi di vita, sta nel riconoscimento del dono che ogni essere umano è: “Gli operatori sanitari, qualunque fede abbiano o non abbiano, devono offrire prima di tutto sé stessi, e solo dopo la loro competenza” aveva suggerito la Saunders nel discorso pronunciato a Yale, in cui sottolineava la prospettiva di “una medicina migliore” per i pazienti e gli operatori, i familiari e gli amici.
Del resto, sono gli stessi esseri umani, pur condizionati da limiti e fragilità, i veri protagonisti di un’avventura che rende credibile una speranza “che non si sa bene cos’è” ma che quando alita evidenziando il suo soffio nelle circostanze più varie, “è fatta di cose che hanno bisogno di qualcuno che le faccia accadere”.
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