Il giurista americano Ronald Dworkin (1931-2013) arrivò in punto di morte a teorizzare la religione come essenza molto più importante di Dio: Dio è autorità, religione è legame sociale basato su comunità e natura. È molto complicato prendere partito, perché, pur volendola escludere, la tesi resta monca della risposta alla domanda fondamentale sull’esistenza di Dio e, conseguentemente, su come Dio possa essere conosciuto all’umano. Espellere Dio, e qui usiamo la divinità come fondamento ultimo della dignità umana, alla cui indicibile violazione c’è sicuramente ingiustizia, non ha mai portato molto bene alla collettività. Come benefici non ha mai avuto l’imposizione delle religioni di Stato: soprattutto quelle idolatriche, quelle appunto senza Dio.
L’uno e l’altro caso lasciano l’individuo – creatura fittizia delle libertà borghesi o soggetto in carne e ossa immerso nello spazio sociale? – introflesso e annichilito, bisognoso di trovare canali altri per non perdere l’essenziale carteggio interiore col mondo dell’anima e del pensiero. La grammatica del Novecento intimista non può prescindere dallo scrittore statunitense Saul Bellow (1915-2005): più le sue trame sono spezzettate, sottili, frammentarie, raccolte, finanche involute, più la voce interiore di antieroi che ricuciono i propri pezzi suona alta. Trasforma la scenografia in coreografia, il soliloquio in ricerca di interlocutori, il rovello in presupposti per l’azione e l’indecisione in condizione propedeutica alla possibilità della scelta.
Saul Bellow diventa celeberrimo quando prende di mira il famigerato americano medio. Bianco, anglofono, maschio, protestante, arricchito, ma non solo. Incanalato in una mentalità, a prescindere dalle sue connotazioni etniche, razziali, religiose, economiche. La cultura come formante più violento della classe, della proprietà, dell’affiliazione partitica. Eppure la sua opera più attuale appare oggi la prima, e quella paradossalmente più imbevuta di dati storici di contesto, L’uomo in bilico (1944): il dangling man è in fondo già linguisticamente metafora perfetta dell’oggi. Siamo in bilico sulla morale di derivazione religiosa, e lo dimostra il vasto e spesso irrisolto dibattito interno all’associazionismo cattolico (all’associazionismo religioso tutto, invero, considerata la crescente irriducibilità dei pluralismi interni). Siamo in bilico sugli scenari internazionali: la crisi del secolo americano è una sorta di demone catecontico che trattiene e impedisce un asset nuovo che tuttavia serpeggia gonfiandosi – e che non appare molto migliore. Siamo in bilico nelle scelte di vita: dal lavoro alla migrazione, dalla famiglia da cui proveniamo fino a quella che vogliamo. E ci siamo scelti, proprio dentro quell’illusoria fine della storia nella liberaldemocrazia, consumatasi tra il 1989 e il 2001, tra caduta del Muro e attacco alle Torri, quali compagne fondamentali la guerra e la crisi. Che già c’erano nella decade globale e unilaterale: incrinature ormai diventate massive.
Saul Bellow è perfettamente incardinato nello scivolare del tempo: la sua prosa unisce personaggi di ascendenza ebraica e ambientazioni africane – plastica poliedricità del mondo ufficialmente globale – ma le sue opere migliori durano poche ore o settimane e si svolgono a Chicago o New York. La periferia della grande industrializzazione e il nuovo centro dell’economia dei servizi. Cosa verrà dopo? Siamo, appunto, in bilico: cosa ne seguirà? Colture artificiali o sfruttamento della terra? Scomparsa del lavoro di fabbrica o nuove schiavitù? Flessibilità plastica della produzione o incertezza permanente sui propri destini?
Il disoccupato Joseph spulcia il suo stesso diario a un dipresso dal Lago Michigan; attende lo chiamino alle armi. Paradossalmente, l’unica certezza che ha: prima o poi quella cartolina arriverà. La guerra è l’indice mostruoso della sua normalità. Lo sarà persino per questa generazione?
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