L’andamento del mercato del lavoro italiano risulta strutturalmente condizionato dall’esigenza di far fronte a due criticità: la perdita della popolazione in età di lavoro per motivi demografici, che comporta tassi di uscita dei lavoratori anziani di gran lunga superiori al numero dei giovani che potrebbero entrare; la crescita dei fabbisogni professionali richiesti dalle imprese che non trovano riscontro nell’offerta di lavoratori disponibili. Le conseguenze pratiche di queste tendenze sono evidenti: la carenza di risorse umane in grado di accompagnare i percorsi di crescita degli investimenti e delle innovazioni tecnologiche; la riduzione del numero delle persone che producono ricchezza rispetto a quelle anziane e inattive.
La possibilità di invertire la rotta risulta aggravata dalle condizioni di partenza. Il tasso di occupazione italiano risulta inferiore di 10 punti rispetto alla media dei Paesi dell’Ue, equivalenti a circa 3,5 milioni di occupati a parità di popolazione, e si riflette in negativo anche sulla quota delle risorse umane qualificate sul totale degli occupati. Questi ritardi sono aumentati nel corso degli ultimi 15 anni a cavallo delle due grandi crisi economiche.
Come abbiamo avuto modo di commentare in molti articoli, queste criticità non sono il prodotto di fattori esterni, in particolare dell’allocazione dei nuovi investimenti in altri Paesi favorita dalla globalizzazione dei mercati, ovvero delle politiche di austerità imposte dalle Istituzioni europee che hanno compresso i margini di sviluppo della domanda interna. Derivano soprattutto dall’assenza di riforme delle politiche economiche e del welfare che hanno comportato come conseguenza la destinazione di una parte rilevante delle risorse finanziarie pubbliche disponibili verso obiettivi non produttivi e aumentato il numero delle persone assistite.
Il dibattito politico fatica a comprendere l’esigenza di imporre nuove priorità perché i principali partiti sono stati parte attiva di questa deriva che continua a utilizzare la leva dello Stato per distribuire risorse che non trovano un riscontro nella crescita dell’economia e aumentano il debito pubblico, per sostenere i redditi delle persone e delle famiglie. Nei 15 anni citati, la spesa assistenziale annuale trasferita dallo Stato all’Inps è aumentata da 71 miliardi di euro a 157 miliardi.
Per le politiche attive del lavoro non sono mancate le risorse. La parte più rilevante, oltre 250 miliardi sull’arco dell’intero periodo, è stata destinata agli sgravi per le nuove assunzioni a tempo indeterminato e per sovvenzionare i prepensionamenti di circa un milione di lavoratori. In parallelo sono stati utilizzati decine di miliardi di fondi europei e nazionali per finanziare le misure di politica attiva del lavoro, in particolare la formazione di competenza delle regioni, con il supporto di 4 programmi nazionali (Garanzia giovani, Assegno di ricollocazione, Reddito di cittadinanza e potenziamento dei Centri per l’impiego e l’attuale programma GOL finanziato dalle risorse del Pnrr).
I risultati delle misure di incentivazione delle assunzioni e delle politiche attive del lavoro in termini di impatto sul mercato del lavoro sono stati poco significativi. Il grande buco continua a essere la carenza dell’integrazione tra i percorsi formativi e quelli lavorativi che produce conseguenze negative sul piano educativo e su quello professionale ed economico delle giovani generazioni.
Infatti, il paradosso italiano per eccellenza è rappresentato dal mancato ricambio generazionale, e dalla riduzione del tasso di attività dei giovani under 34 anni, a fronte di un esodo dei lavoratori anziani per motivi di pensionamento che di gran lunga superiore alle nuove coorti d’ingresso nel mercato del lavoro. L’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro, come confermato da numerose indagini, continua a essere alimentato dalle relazioni informali e dal passaparola. Le dinamiche dell’apprendimento teorico e pratico viaggiano distinte su binari paralleli, si allontanano dai processi di innovazione tecnologici che nel frattempo sono diventati più intensi e pervasivi.
Aumenta il fabbisogno di aggiornare le competenze e di rendere sostenibile la mobilità lavorativa. Il mancato ricambio generazionale e l’impossibilità di rigenerare le competenze con i modelli tradizionali di apprendimento, compresi quelli del trasferimento delle conoscenze dei lavoratori anziani verso i giovani, lo riscontriamo nella drammatica riduzione delle coorti dei lavoratori tra i 35 e i 49 anni di età (-1750 milioni negli ultimi 15 anni). In tutti i mercati del lavoro in questa fascia d’età si concentra la formazione e la riproduzione dei ceti lavorativi esperti, cioè le professioni medio alte e le specializzazioni tecniche ed esecutive che costituiscono la spina dorsale delle organizzazioni produttive. Rappresentano anche la quota della popolazione da cui dipende la qualità delle scelte destinate a influenzare i destini delle comunità sul medio e lungo periodo: la formazione delle nuove famiglie e le dinamiche delle nuove nascite.
Queste tendenze aiutano a comprendere l’importanza strategica di adeguare le politiche del lavoro in tre direzioni: aumentare l’intensità e la qualità degli investimenti formativi sulle risorse umane; aumentare i livelli di cooperazione tra le istituzioni formative, le imprese e i servizi per l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro; valorizzare la formazione erogata negli ambiti lavorativi.
È un’evoluzione che non trova riscontro nell’attuale governance del programma GOL, basata sul ruolo privilegiato dei Centri pubblici per l’impiego per: la presa in carico delle persone in cerca di lavoro; l’individuazione dei fabbisogni formativi; la veicolazione degli interventi a valle di questo percorso. Modalità che allontanano la programmazione e la gestione pubblica delle misure dalle dinamiche reali del mercato del lavoro.
Nel frattempo sono raddoppiate le risorse finanziarie a disposizione delle politiche attive del lavoro. È aumentata la quantità delle informazioni disponibili per valutare i fabbisogni della domanda e dell’offerta di lavoro e sono migliorate le tecnologie che possono facilitare la condivisione e l’accesso ai servizi per le imprese e le persone. Ma la condizione per poter sfruttare al meglio queste opportunità dipende dal cambiamento degli approcci culturali e dei comportamenti che hanno impedito le riforme del lavoro negli ultimi decenni.
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