L’ombra dell’Isis si stende sull’attentato nella chiesa di Santa Maria a Sariyer a Istanbul: durante la messa domenicale due uomini armati sono entrati nell’edificio e hanno iniziato a sparare verso l’alto provocando paura e diversi feriti. Uno dei presenti, Tuncer Cihan – cittadino turco e malato mentale –, si è alzato per condannare con forza il gesto ed è stato freddato dagli attentatori. Massimiliano Palinuro, vicario apostolico di Istanbul, non esita a identificare quanto accaduto come un atto mosso dall’intolleranza religiosa e il papa, all’Angelus, ha rappresentato la sua vicinanza a tutta la comunità cattolica di lingua italiana presente nella capitale del Bosforo.
Le ore che passano sembrano inoltre confermare i sospetti circa la responsabilità di alcune cellule dell’Isis e la completa estraneità della vittima ai motivi per cui l’attentato ha avuto luogo. Il nipote di Cihan ha affermato che l’uomo si trovava in chiesa perché era stato invitato e che si deve escludere qualunque legame tra la sua morte e le attività terroristiche perpetrare dalla coppia di attentatori. Forte e chiara, infine, la solidarietà delle autorità turche, in particolare del sindaco di Istanbul che – in un intervento pubblico – ha deplorato e condannato il gesto come un attentato all’unità del Paese anatolico.
La cronaca, per quanto sommaria, finisce qui. Ma è chiaro che quanto accaduto, il significato profondo del vile attacco, non può essere contenuto da una semplice cronaca dei fatti. Alcuni elementi simbolici gettano una luce diversa sugli avvenimenti, una luce che merita di essere presa in considerazione.
Il primo elemento è la violenza perpetrata durante la liturgia. Non è un fatto secondario: i cristiani non danno fastidio quando sono da soli o quando professano individualmente la loro fede. I cristiani sono insopportabili quando vivono e agiscono insieme, come comunità. È la comunione che entra nella storia, e riconosce la presenza di Cristo, che colpisce la libertà dell’uomo. Non è un caso se la protestantizzazione del cattolicesimo iniziata negli anni Cinquanta del secolo scorso abbia avuto come primo obiettivo quello di spezzare i legami comunitari e trasformare le liturgie domenicali da espressioni di una comunità a manifestazioni di fede dei singoli. Senza la comunione non c’è segno e senza segno non c’è alcuna testimonianza, ma solo proselitismo o impegno volontaristico dei singoli.
Interessante è poi la figura di Tuncer Cihan: nessuno aveva osato contrapporsi all’attentato in corso, solo un uomo – turco, non italiano – connotato dal fatto che era stato invitato alla celebrazione e malato di mente, ha frapposto sé stesso alla volontà estremista degli attentatori. Uno straniero malato, toccato da quello che stava vivendo, non si è fermato all’invito ricevuto, ma ha difeso per primo – a costo della vita – quel luogo sacro che gli altri, per paura, non avevano protetto. Ciò che salva una comunità, ciò che la porta all’essenziale, non sono gli intellettuali o i “perfetti”, ma i poveri, gli ultimi, i malati, i più fragili. C’è un magistero nel gesto di quell’uomo che è grande come quello della Santa Sede: non è il magistero dell’incoscienza o della malattia, ma quello della fragilità, del percepire che quella chiesa non andava lasciata alla sacrilega violenza di chi voleva profanarla, ma occorreva difenderla. Tuncer Cihan è morto per un valore che ha riconosciuto, non sappiamo quanto consapevolmente, in un luogo in cui non era mai stato ma in cui aveva potuto respirare qualcosa di diverso.
Per che cosa noi daremmo la vita? Che cosa ci indicano le fragilità che abitano la nostra famiglia, la nostra comunità, i nostri luoghi di lavoro? La protestantizzazione del cattolicesimo, dopo l’individuo, tende ad eliminare il magistero del povero, riducendo il cristianesimo a parola e stigmatizzando il percorso umano compiuto dalla tradizione della Chiesa lungo i secoli, fino a riconoscere nel sofferente e nell’indigente una povertà decisiva per capire come e dove vivere la fede oggi. Sono poveri i nostri ragazzi, sono poveri tanti adulti, sono poveri tutte le persone oppresse da un sistema sociale ingiusto, schiacciate ai margini della società e ridotte in solitudine.
Viviamo un cattolicesimo di individui che non sanno più riconoscere nella realtà le indicazioni di Dio, un cattolicesimo che brandisce le parole senza coglierne il nesso con l’esperienza. Tuncer Cihan aveva invece afferrato l’eccezionalità del luogo dov’era e ha dato la propria vita, come un martire, per difenderlo e proteggerlo.
L’attentato di Istanbul, che presto sarà dimenticato dai media e dalla comunità cristiana, è tutt’altro che un episodio marginale nella bimillenaria storia del cristianesimo: esso racconta tutta la crisi del nostro tempo e indica che l’Isis teme la comunione tra i credenti, la loro comune appartenenza. Una comunione e un’appartenenza che si ritrovano nella misura in cui si prende sul serio la propria fragilità e la si lascia invitare da Cristo alla festa che Egli ha preparato per ogni uomo.
Santa Maria a Sariyer diventa così un luogo simbolico, emblema di un monito che sembra essere stato lanciato dal Cielo perché, chi vuole leggere oltre l’apparenza, ritrovi tutta l’urgenza di un cammino autentico nella propria fragilità dentro la grande comunione della Chiesa. Pronto a dare la vita per un amore che è più grande di ogni morte. Per un amore che abbraccia tutto, anche il tenero sacrificio di un uomo chiamato Tuncer Cihan.
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