Il gennaio del 1944 vide l’inizio dell’offensiva alleata in Italia per scardinare la Linea Gustav, costruita nel tratto più stretto della penisola ed avente come fulcro Monte Cassino.
La grande offensiva alleata iniziò l’11 gennaio e vide qualche successo, soprattutto da parte del Corpo di spedizione francese, particolarmente agguerrito, mentre la 45esima divisione americana e la 56esima divisione britannica si logoravano con scarsi risultati. Il tentativo di attraversamento del Garigliano attuato il 20 gennaio da parte della 36esima divisione statunitense “Texas” fu un fallimento totale con più di 2mila tra morti, feriti e dispersi in 48 ore di combattimenti. Tutto questo doveva servire a distrarre le riserve tedesche dal vero colpo a sorpresa: lo sbarco sul litorale di Anzio di due divisioni alleate, la III americana e la I britannica, teso a far crollare le difese tedesche e costringerle a ritirarsi verso Roma. Un’operazione voluta fortemente da Churchill e basata sul presupposto che il comando tedesco si sarebbe fatto prendere dal panico. In realtà l’Oberkommando della Wehrmacht aveva studiato nei minimi dettagli diversi piani atti a contrastare gli sbarchi alleati. Erano state considerate cinque eventualità: Caso Richard (area di Roma); Ludwig (Livorno); Gustav (Genova); Viktor (costa adriatica); e Ida (Istria/Trieste). Per il Caso Richard era previsto l’afflusso di tre divisioni (una meccanizzata, una di paracadutisti e una di fanteria) e altri reparti per un totale di 90mila uomini in due settimane, mentre gli Alleati avevano quantificato un afflusso di soli 60mila tedeschi nello stesso periodo.
Così, quando il 22 gennaio gli Alleati sbarcarono ad Anzio, non trovarono nessuna difesa a contrastarli ma il generale americano Lucas volle rinforzare la testa di ponte prima di avanzare su Roma, scelta per cui fu molto criticato. E invece fece bene, perché proprio le difese predisposte seppero resistere, sia pure con estrema difficoltà, a una serie di devastanti contrattacchi tedeschi. La testa di ponte di Anzio rimase tale e non ci fu nessuna possibilità di espanderla.
La Resistenza italiana, invece, andava rafforzandosi sia pure subendo perdite crudeli. Tra i tanti citeremo due eroi di quei tempi: il monarchico Giuseppe Cordero di Montezemolo, già volontario coi franchisti nella guerra di Spagna, capo dei servizi segreti partigiani a Roma, catturato dalle SS di Kappler il 27 gennaio e ferocemente torturato per settimane; e il comunista Felice Cascione, detto U megu” (il medico), autore dei versi della più famosa canzone partigiana “Fischia il vento”. Il 27 gennaio “U megu”, durante un rastrellamento in Val Pennavaira, nell’Appennino ligure, venne colpito a una gamba e diede ordine ai suoi di ripiegare, coprendo la loro ritirata. Fatto prigioniero, quasi dissanguato, vide che i fascisti stavano torturando uno dei suoi uomini perché identificasse il comandante. A quel punto Cascione si alzò, barcollando e si rivolse al nemico: “Sono io Cascione, il capo dei partigiani. Lasciate stare quel ragazzo, non è uno dei nostri, è uno che abbiamo arrestato”. Venne immediatamente crivellato di colpi.
Nel corso delle ricerche condotte per due opere, O tutti o nessuno! e Partigiani cristiani nella Resistenza: la storia ritrovata chi scrive si è imbattuto in un gruppo di biografie straordinarie quanto poco conosciute: quella di don Domenico Orlandini e don Pasquino Borghi e altri sacerdoti di cui avremo modo di narrare. La vita di don Domenico Orlandini “Carlo”, sacerdote e combattente, educatore e paracadutista, è un romanzo d’avventura: e non solo la sua. L’essere sacerdoti non significa operare e vivere isolati, ma in comunione con gli altri confratelli. Di famiglia poverissima, potè studiare in seminario grazie alla sua vivacissima intelligenza e fu ordinato sacerdote il 19 giugno 1940. Nominato parroco di Poiano, nell’Appennino reggiano, dopo l’8 settembre 1943 fu tra i primi a iniziare la Resistenza più nobile, più pura e più sconosciuta: quella della carità col salvataggio di militari, prigionieri fuggiaschi ed ebrei. Il suo principale collaboratore era un altro sacerdote, don Pasquino Borghi, parroco di Tapignola Coriano, ascetico, intellettuale, già missionario in Sudan e tornato in Italia per motivi di salute. Difficile immaginare due personaggi così diversi, per quanto ambedue dinamici e impavidi: don Pasquino, quarantenne, con esperienza missionaria e conventuale, intellettuale e ascetico; don Domenico, trentenne, combattivo, esuberante e atletico. I due sacerdoti riuscirono ad aiutare più di 3mila militari italiani e anglo-americani, fino a quando don Domenico, il 9 ottobre 1943, raggiunse le linee alleate. Passò la linea del fronte e fu incaricato dal comando alleato di salvare il maggior numero possibile di propri militari prigionieri di guerra.
Nel corso di una di queste missioni si fece catturare da una pattuglia tedesca per permettere ai prigionieri che stava accompagnando di porsi in salvo. I nazisti fecero salire don Domenico su un sidecar, guardato a vista da un soldato che, seduto dietro il guidatore, gli teneva una pistola costantemente puntata addosso. Durante il viaggio don Domenico restò calmissimo, quasi con aria rassegnata, sempre pregando il soccorso della Madonna di Bismantova: ma non appena il guardiano si accese una sigaretta, il prete gli sferrò un diretto nello stomaco e si gettò dal sidecar giù per una scarpata. I due tedeschi restarono totalmente sorpresi e poterono solo sparare qualche colpo verso il prete che correva come un cervo, ormai lontanissimo. Alle nove di sera, don Domenico passò le linee alleate e ritrovò i prigionieri da lui salvati, che lo avevano dato per morto. In effetti, come vedremo in seguito, la notizia della sua esecuzione si sarebbe diffusa e sarebbe arrivata fino a Poiano.
Dopo aver seguito un corso di paracadutismo, don Domenico sbarcò sulla costa abruzzese il 1° novembre 1943 e ritornò a casa, per poi ripartire con altri prigionieri. Ridiscendendo verso sud, ne liberò altri a Montegranaro e da un campo di prigionia presso l’Aquila. Il 12 aprile 1944 fece ritorno a Sassuolo in bicicletta, partendo da Sassoferrato: cinquecento chilometri in due giorni. Ma fu proprio durante il viaggio che venne a sapere della morte di don Pasquino Borghi. Questi aveva iniziato a collaborare con Aldo Cervi, che sarebbe stato fucilato a Reggio Emilia insieme ai suoi sei fratelli. La sua attività di aiuto ai fuggiaschi e la collaborazione con le prime bande partigiane non erano sfuggite alla sorveglianza fascista. Dopo qualche mese di attività iniziarono gli arresti dei sacerdoti che collaboravano con la Resistenza e don Borghi avvertiva che il cerchio intorno a lui si stava stringendo. Per resistere alla paura, per non cedere allo scoraggiamento, il rimedio era quello solito allora: preghiera e cilici, uno scapolare di setole e una catenella appuntita.
Il 10 gennaio 1944 scese a Reggio Emilia per chiedere soldi e medicine al locale CLN. Qui incontrò don Angelo Cocconcelli e Giuseppe Dossetti, entrambi esponenti partigiani. I due amici fecero presente a don Borghi che i fascisti lo pedinavano e che non poteva più tenere nella sua canonica soldati alleati e renitenti alla leva. Don Pasquino rispose: “Ma dove li mando con trenta centimetri di neve?”. Per quanto fossero forti le insistenze, non vi fu niente da fare, anzi, pochi giorni dopo, durante un’omelia, il sacerdote disse pubblicamente che i giovani dovevano rifiutare di arruolarsi nell’esercito della Repubblica sociale e fuggire in montagna.
A don Borghi restavano pochi giorni di vita, e ne era perfettamente consapevole anche quando accettò di predicare a un triduo alle ragazze dell’Azione Cattolica a Villa Minozzo. I parrocchiani gli avevano detto di non andare, ma la risposta ritrae la sua tempra: “Che importa anche se dovessi morire? Tanto la vita, quaggiù, non è eterna!”. Per precauzione, don Pasquino acconsentì ad andare a Villa Minozzo solo l’ultimo giorno del triduo, il 21 gennaio 1944. Lungo la strada incontrò due militi in borghese che salivano verso la sua chiesa, ma non ci fece caso. E invece proprio loro, con una pattuglia di carabinieri, andarono a bussare alla porta della canonica da cui era appena uscito. Iniziò la perquisizione delle case circostanti e della scuola elementare, ma senza esito. Poi fascisti e carabinieri salirono nella camera da letto di don Pasquino, ma anche qui le ricerche furono infruttuose. Mancava solo una stanza da perquisire nella canonica. Proprio da questa stanza uscirono all’improvviso quindici soldati alleati, sparando e lanciando bombe a mano. La sorpresa ebbe il suo effetto e i fuggiaschi riuscirono a dileguarsi senza che vi fossero feriti. Ma per don Borghi era la fine. Immediatamente la pattuglia andò a Villa Minozzo e lo arrestò quando aveva appena terminato l’omelia. I fascisti lo assalirono, gli fecero a brandelli l’abito talare, picchiandolo e insultandolo. I maltrattamenti continuarono anche nei giorni successivi.
Poi la svolta: il 28 gennaio 1944 venne assassinato Angelo Ferretti, comandante del presidio della Guardia nazionale repubblicana di Rio Saliceto. A quel punto, come accaduto anche in altre occasioni, la sete di vendetta dei fascisti travolse ogni regola esistente. In base ai Patti Lateranensi qualora un religioso fosse accusato di un reato la diocesi competente doveva essere immediatamente avvisata. Cosa che non avvenne, perché i fascisti volevano la morte di don Pasquino e di altri otto ostaggi che furono fucilati, il 30 gennaio, al poligono di Reggio Emilia. Le ultime parole di don Pasquino furono rese pubblicamente. “Accetto questa morte dalla mano di Dio in isconto dei miei peccati, per il bene della diocesi e per impetrare a Dio la grazia della cessazione dei mali che affliggono il nostro tribolato Paese. Chiedo perdono a tutti, dispiacente del dolore che con questa mia fine recherò a monsignor vescovo e ai miei confratelli. Perdono tutti”.
Quella stessa domenica il vescovo celebrò una messa alla quale era presente Enzo Savorgnan, capo della provincia di Reggio Emilia. Questi era consapevole dell’esecuzione, ma si guardò bene dall’informare il vescovo di quanto accaduto, rivolgendogli anzi cortesi parole alla fine della funzione. Poco dopo, monsignor Brettoni fu messo al corrente e scrisse a Savorgnan il quale, in tutta fretta, gli inviò una lettera in cui dichiarava che la sentenza era stata emanata il 29 gennaio dal Tribunale speciale: una menzogna spudorata, perché non vi era stata alcuna riunione di quell’organo giudicante. Come accaduto anche in altre occasioni, la macchina da guerra dell’ideologia fascista si mobilitò con violenza e volgarità. Ci fu chi sostenne che don Borghi fosse morto implorando pietà o che fosse stato scomunicato dal vescovo. Oggi l’abito di don Pasquino, traforato dai proiettili, è custodito nella parrocchia di S. Pellegrino a Reggio Emilia.
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