L’aumento delle dimissioni volontarie dal posto di lavoro, il fare solo il minimo indispensabile per non farsi licenziare, le richieste di crescente flessibilità nell’organizzazione del proprio lavoro (lo smart working è il minimo sindacale), tutti comportamenti che hanno fatto dire che, dopo l’impatto creato dai lockdown, c’è una nuova fuga dal lavoro.
È poi emerso che chi si limita al minimo di partecipazione sul lavoro è perché stima sottoutilizzate le sue competenze. Che le grandi dimissioni, per quanto riguarda l’Italia, sono motivate dalla ricerca di un lavoro migliore. Che la richiesta di un lavoro migliore vede come principali motivi la conciliazione vita/lavoro e le prospettive di crescita professionale e solo dopo la richiesta di un incremento salariale. Non si tratta, quindi, di un rifiuto del lavoro, ma di una domanda di senso del lavoro che contiene una sgrida a come oggi è trattato e organizzato socialmente, è domanda di cambiamento che chiede nuove ragioni per una delle attività fondamentali della nostra vita.
Nei giorni scorsi il Censis ha presentato un’interessante ricerca su questo tema. Interessante perché ha messo a confronto i dati generali derivati dai loro studi fatti a livello nazionale con una realtà economicamente ricca e avanzata come l’area della città di Bologna e con un rilevamento fatto sulla realtà industriale molto avanzata come lo stabilimento della Philip Morris.
Ha senso guardare una realtà industrialmente ricca e socialmente avanzata come Bologna perché è all’apice dei dati del nostro mercato del lavoro e presenta le stesse contraddizioni che segnano l’attuale fase del mercato del lavoro italiano.
Ormai da tempo l’occupazione in Italia è in crescita. Cresce, contrariamente alle narrazioni pauperistiche di molti commentatori, in quantità e qualità. Abbiamo superato ogni record storico del tasso di occupazione e, all’interno, crescono quella giovanile e femminile. Crescono i contratti a tempo indeterminato e le ore lavorate. Certo rimaniamo il Paese europeo che ha ancora quasi 10 punti di occupazione in meno del tasso ottimale previsto. Bologna è una realtà dove i tassi di occupazione sono già in linea con gli obiettivi europei sia nel complesso che per la componente femminile.
Appaiono, però, evidenti alcuni problemi strutturali del nostro mercato del lavoro. In primo luogo, il mismatching rilevato fra competenze richieste dalle imprese e preparazione di chi cerca lavoro. Per il 50% delle ricerche di personale diventa impossibile trovare candidarti adatti. Ad accentuare il fenomeno di disallineamento contribuisce poi l’impatto demografico. Le classi di età che arrivano al lavoro in questi anni sono molto meno numerose di quelle in via di uscita. Da qui l’avvio da parte delle imprese di politiche per trattenere i lavoratori con le competenze necessarie e politiche di reclutamento più spinte.
Il deficit di manodopera potrebbe essere coperto dal recupero di parte di quanti, pur in età di lavoro, non partecipano alla ricerca di un posto. Nel nostro Paese sono più di 12 milioni gli inattivi. Per il 90% donne. Da questo totalone vanno però sottratti quanti hanno ragioni “forti” per restare fuori dal mercato del lavoro (assistenza a famigliari, studio, pensione). Restano comunque oltre 3 milioni di persone che, se debitamente sostenuti e accompagnati, potrebbero essere pienamente impegnati e chiuderebbero nel breve periodo il deficit di offerta di lavoro che caratterizza la situazione lavorativa italiana. Almeno per quanto riguarda la quantità perché resta, dato il progressivo invecchiamento di quanti lavorano, un problema di formazione delle competenze chiudendo il mismatching esistente che altrimenti si amplierà ulteriormente.
Per ottenere questo risultato di nuova partecipazione è utile vedere come il lavoro è oggi concepito dagli italiani. Per circa due terzi di loro, il lavoro “non è più centrale nella vita delle persone”. Per tre quarti, il lavoro”c’è, ma è lavoro poco qualificato e sottopagato”. Appare qui chiaramente il disallineamento fra quanto richiedono le imprese e le aspirazioni di quanti cercano lavoro. Spesso le competenze acquisite in fase formativa sono maggiori di quante richieste, e utilizzate, dai datori di lavoro. La valutazione cresce infatti con il crescere del titolo di studio degli intervistati. Sulle motivazioni che stanno alla base del cambiamento di lavoro il maggiore guadagno è pari alla ricerca di un maggiore riconoscimento delle competenze e della prospettiva di crescita (36%). Seguono a distanza orari compatibili, cure famigliari, ecc.
Per l’attaccamento al lavoro emerge chiaro un giudizio diverso in base all’età. Per un’ora in più di lavoro avere un riconoscimento economico più che proporzionale trova consenso alto in tutte le classi di età, ma scende partendo dal massimo fra i più giovani.
Per quanto riguarda gli atteggiamenti degli occupati di Bologna, questi mostrano di voler avere ancora una città capace di essere ben amministrata, capace di attrarre nuove opportunità di crescita economica con un rinnovato impegno verso le nuove povertà e con attenzione alla sostenibilità ambientale. Hanno un forte attaccamento al lavoro. Si tratta della città con il più alto tasso di attività in Italia. Non mostrano giudizi divergenti dai dati nazionali rilevati.
Quella di Philip Morris è una realtà storica del panorama industriale di Bologna e negli ultimi anni ha realizzato qui il più avanzato stabilimento mondiale per per prodotti senza combustione e il centro di ricerche per l’eccellenza industriale. È quindi polo produttivo ad alto tasso di impiego di alte professionalità.
Dal sondaggio emerge che del lavoro ha una visione positiva la gran parte degli intervistati. Per molti (64%) è un diritto ma anche la possibilità di contribuire positivamente alla società. Per questi il lavoro va fatto bene, definisce l’identità della persona e permette di realizzare se stessi. Necessario per soddisfare i propri bisogni, ma quel che conta è altro nella vita, è il parere della minoranza.
A che sentimento accosti il lavoro diventa un plebiscito per indipendenza e dignità (rispettivamente 43,2 e 23,7%). L’indipendenza raccoglie la maggioranza assoluta fra le risposte femminili. Seguono poi passione e routine. Creatività e fatica raccolgono scarsi consensi.
Quali elementi del tuo lavoro associ alla felicità porta al 58,7% il beneficio economico. Fra i laureati è però al 54% il riconoscimento del contributo che si dà al lavoro dell’azienda. Parere che è nel complesso del 41% dei voti. Lavoro in team e soddisfazione nel risolvere problemi sono le altre fonti di positività riconosciute. Solo il 18% delle citazioni (erano possibili più risposte) va alla possibilità del lavoro da remoto.
Cosa apprezzare del proprio lavoro dà preferenza alla sicurezza economica e alle opportunità di carriera e crescita professionale. Cosa serve per una crescita professionale descrive bene i nuovi rapporti di lavoro. Primeggia la necessità che sia riconosciuto il merito nell’ambiente lavorativo, poi che vi sia equilibrio vita personale e lavorativa perché è necessario per equilibrio psico-fisico e che vi sia una buona offerta di formazione continua. In queste condizioni grande motivazione e forte ambizione diventano le molle personali che rendono disponibili i lavoratori all’impegno.
Questa disponibilità alla crescita e alla partecipazione attiva al lavoro viene confermata dalla domanda relativa a cosa considerare un lavoro ben fatto: il 49% risponde un lavoro completo in ogni o dettaglio fatto con passione e creatività oltre quanto richiesto.
Il lavoro resta quindi al centro della realizzazione personale e forse anche di quella collettiva se il riconoscimento sociale valorizza le professionalità tutte, dalle più alte alle meno qualificate.
Appare tutto il contrario della fuga dal lavoro annunciata con troppa superficialità dagli amanti della decrescita felice. Chi lavora auspica un lavoro soddisfacente e felice sapendo che l’alternativa è l’infelicità della disoccupazione.
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