La laurea post mortem conferita a Giulia Cecchettin ha improvvisamente riacceso i riflettori della cronaca sulle due famiglie coinvolte nel delitto. Non solo i Cecchettin, e il loro tentativo di andare avanti dopo la perdita subita, ma anche i Turetta, alle prese con un figlio che le notizie dal carcere descrivono ancora lontano dal maturare una piena consapevolezza su quanto compiuto. Sono le due facce del male, le due ombre del dolore. Subire il male è un fatto paralizzante: può inchiodare per anni al disperato tentativo di ottenere una sentenza, un’azione, un momento simbolico in cui il cerchio si chiuda, in cui la sofferenza avvertita sia da tutti riconosciuta e sanzionata.
E non serve arrivare all’omicidio: basta un matrimonio che finisca, un torto sentito come profondamente ingiusto, un’azione percepita come particolarmente scorretta. Tutti cercano rivincita, tutti provano risentimento, tutti chiedono riscatto. È nella natura dell’uomo, fin dai tempi di Esiodo, attribuire alla divinità il potere di riequilibrare le sorti. Kant stesso costruì parte del suo pensiero attorno alla necessità di una giusta condanna per i cattivi e di un’equa ricompensa per i buoni.
Eppure, in questa richiesta di riparazione, c’è di più. Il poeta catalano Joan Margarit una volta ha scritto che “una ferita è anche un posto dove vivere”. Il dolore, infatti, può diventare una casa, uno spazio da cui è difficile uscire. Perché fuori dal dolore c’è la realtà, c’è l’inevitabile presa di coscienza che qualcosa si è rotto per sempre, non c’è più, è finito. Wislawa Szymborska diceva che chi soffre ha un viso così stravolto che ha dimenticato di poter essere bello: è questa percezione della vita come possibilità che il dolore porta via. Si resta senza speranza, come se – senza quello che ormai non c’è più – non ci potesse essere più vita.
Invece il dolore, per sua natura, ci mette al mondo. Noi nasciamo a causa di un dolore e rinasciamo ogni volta che attraversiamo un grande dolore. C’è una vita che non c’è più, ma c’è una vita che non c’è ancora e che deve essere vissuta, che è Mistero. La famiglia Cecchettin, oggi più di due mesi fa, si trova dinnanzi a questa nuova vita. E spetterà a loro decidere se passarla nel rimpianto, che diventa rabbioso risentimento, o viverla nella memoria, che è gratitudine, attesa, curiosità per quello che Giulia vorrà ancora donare loro.
Parimenti i genitori di Filippo si trovano davanti all’altra faccia del dolore: quella di accompagnare chi il male lo ha fatto. In molti, durante questi mesi, hanno accostato l’autore del femminicidio alla parola mostro. C’è un passo del Caligola di Camus in cui l’autore francese fa dire ad uno dei suoi personaggi: “Non lasciarmi. Ho paura. Ho paura dell’immensa solitudine dei mostri. Non andartene”. I mostri si alimentano nella solitudine. La loro energia sta nell’assenza di persone che restituiscano loro dati di fatto, evidenze, realtà. Un breve apologo Cherokee descrive così questa situazione: “Ci sono due lupi in ognuno di noi. Uno è cattivo. L’altro è buono. Se ti chiedi quale dei due lupi prevalga, io ti dico: quello che nutri di più”.
Al di là di quello che Filippo ha compiuto, e per il quale dovrà assumersi le responsabilità che definiranno le leggi e le sentenze, Filippo è molto di più e tutta la sfida della sua vita consisterà nel cedere la parola, nel dare voce, a quella parte di sé che fin qui ha messo a tacere, ma che invece ha tanto da dire e da dare. Pavese diceva che “l’unico modo per sfuggire all’abisso è guardarlo, misurarlo, sondarlo e discendervi”.
È un lungo viaggio quello che attende i genitori di Turetta, chiamati a dare amore a ciò che ha causato orrore, chiamati a condividere di fatto il peso di una colpa che non è la loro. Ma nessun uomo può essere mai ridotto ad un unico evento della propria esistenza: la vita è più grande del pezzo che abbiamo fino ad ora vissuto, la vita è Mistero.
Senza Mistero, dunque, il dolore dei Cecchettin sarebbe privo di speranza, senza questo Mistero il dolore dei Turetta sarebbe anticamera di morte. Gli uomini hanno inventato la giustizia per imparare a dialogare con il dolore. Non hanno costruito tribunali e leggi per un’esigenza astratta, ma perché la risposta al dolore non fosse la rabbia, la violenza, il furore. La giustizia non è stata pensata per punire, ma per rimetterci in dialogo con il dolore che abbiamo subito e con quello che abbiamo dato. Solo in quel dialogo è possibile riaprire uno spazio che è lo spazio del Mistero, uno spazio in cui chi piange le vittime accetta di nascere e di ripartire, uno spazio in cui chi si riconosce o accompagna il carnefice inizia a guardarsi dentro per trovare una luce, un punto di bene, che sia più grande del male commesso.
O la vita è questo spazio, questo Mistero, oppure il nostro essere vivi è un continuo cedere alle emozioni e ai sentimenti suscitati e sanciti dall’opinione pubblica, dai mezzi di comunicazione e dai social: o apparteniamo al Mistero oppure smettiamo di essere liberi. Balthasar diceva che Dio ha voluto la morte in croce di Suo Figlio perché potesse emergere ontologicamente una radicale distanza tra il Suo mondo e quello degli uomini. Quella distanza, diceva il teologo svizzero, non è una lontananza, ma uno spazio nuovo, lo spazio in cui ogni uomo può ritrovare sé stesso e la propria umanità. Da allora, infatti, in ogni ingiustizia, in ogni male e in ogni dolore, c’è uno spazio ampio – a volte immenso – dove potersi perdere. Oppure dove poter ritrovare tutta la forza e la dignità dell’essere uomini. Dove poter guardare con gratitudine inaudita anche a quello che ci ha fatto male.
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