È ancora fresca la polemica di Matteo Salvini con Ilaria Salis, balzata alle cronache per essere detenuta in Ungheria da un anno e comparsa in aula con le catene. Il vicepremier e ministro dei Trasporti ha detto che non la vorrebbe come maestra per i suoi figli. Sempre in questo periodo è scomparso il mio vecchio e indimenticabile maestro, Giuseppe Panico. I due episodi sono l’occasione per ripensare all’evoluzione dell’insegnamento nella scuola primaria. Cominciai a frequentare le elementari, allora si chiamavano così, circa sessant’anni fa. Scuola statale naturalmente. I ricchi del mio paese – Seregno in Brianza – e dei dintorni mandavano invece i loro rampolli nei due collegi: il Ballerini per i maschi e il Giovanna D’Arco per le femmine. I figli del popolo frequentavano invece le Stoppani, un massiccio edificio costruito durante il fascismo.
La mia classe era formata da 30 alunni, rigorosamente maschi, tutti con il loro giacchino nero e il nastro azzurro. Il maestro era Giuseppe Panico, giunto dal Sud per trovare lavoro e catapultato in una Brianza dove i “terroni” non erano graditi a tutti. Sempre sorridente e affettuoso, ci insegnava tutte le materie: grammatica, matematica, italiano, storia, scienze e geografia, musica, canto, disegno ed educazione fisica. Solo nelle quattro ore del mattino, sei giorni per 24 ore totali. Al massimo c’era un doposcuola al pomeriggio ma solo per i più “zucconi”. Si cominciava sempre il 1° ottobre e si finiva il 15 giugno. Particolare interessante: scrivevamo con la penna a inchiostro. La biro arriverà più tardi.
Ricordo il bidello che arrivava, ogni mattina, con il suo bidoncino e ci riempiva il calamaio con l’inchiostro. E ancora: i pennini con la forma a campanile e la carta assorbente azzurra o rosa. Spesso spezzettata e inserita nel calamaio del “secchione”, durante l’intervallo, per fargli uno scherzo. E ancora, la lavagna in ardesia, il gesso bianco e il cancellino. Anche qui usato per colpire, sempre il “secchione”, quando il maestro si assentava. Ricordo anche gli intervalli nel corridoio. La classe a fianco era quella delle femmine. Con una dolcissima insegnante che divenne poi la moglie del mio maestro. Noi giocavamo a pallone, le ragazze a capannello ci osservavano e già commentavano maliziose. Memorabili le incazzature del bidello che, periodicamente, requisiva la palla con l’immancabile: “Adesso mi avete veramente stancato”.
L’insegnante era un punto di riferimento assoluto. C’era sempre un certo timore quando la mamma diceva: “Domani vado a parlare con il tuo maestro”. Era un’autorità assoluta e nessuno osava metterlo in discussione. Papà, la sera quando tornava dal lavoro, voleva sempre sapere com’era andata a scuola. L’unica volta che, per giustificare un brutto voto, incolpai una spiegazione del maestro, mio padre si scurì in volto e mi mollò un sonoro ceffone con un’ammonizione finale: “Studia e tas (taci)!”. Imparavamo le poesie a memoria: “Oh cavallina, cavallina storna…”, “La nebbia agli irti colli, piovigginando sale…”, “Ei fu. Siccome immobile…”. Oggi non c’è più il maestro unico, ci sono le lavagne digitali interattive, si utilizza il computer per fare i compiti, rare le poesie a memoria. Ci sono le chat delle mamme con, immancabili, i giudizi sugli insegnanti. Qualcuno li pesta, anche. E al mio maestro qualcuno preferisce una che va in giro con il manganello e si accompagna con gruppi che picchiano gli avversari politici.
È cambiato il mondo. Ma il cuore dell’insegnamento rimane uno solo. Un aneddoto, raccontato da una vecchia maestra, lo spiega bene: “Un giorno un mio alunno, Nico, mi consegnò il compito in classe di matematica in bianco. Gli chiesi una spiegazione. Lui rispose: ‘Maestra, questo non te lo faccio’. Capii allora che quel bambino, tutti i bambini della classe, chiedevano un rapporto con loro. Avrebbero fatto i compiti, studiato, imparato per me, solo per me”. È l’essenza dell’insegnamento, come della vita: “Amare ed essere riamati”.
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