La terribile e disumana azione terroristica di Hamas del 7 ottobre scorso ha provocato una reazione israeliana di sproporzionata potenza che sta provocando gravi sofferenze nella popolazione palestinese con molte vittime civili. La “terza guerra mondiale a pezzi” include, ora, un focolaio gravissimo in Medio Oriente che rischia di portare al coinvolgimento diretto dell’Iran con tutta l’internazionale sciita armata e attiva (Hezbollah in Libano, milizie in Iraq e Siria, Houthi in Yemen). Le azioni militari anglo-americane e una missione europea nel Mar Rosso pongono, inoltre, sempre più l’attenzione su di un movimento non molto conosciuto, quello degli Houthi. Ne parliamo con Francesco Teruggi, studioso dello Yemen e addetto alla Missione Permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite a New York.
Chi sono gli Houthi? Quali i loro obiettivi a lungo termine?
Gli Houthi, ufficialmente noti come Ansar Allah (Partigiani di Dio), sono un movimento zaidita – una corrente dell’islam sciita – fondato all’inizio degli anni duemila da Husayn al-Houthi, membro di una ristretta élite zaidita discendente dal profeta Maometto, i cui membri sono noti come sayyid (“signori”). Il movimento, nato con caratteri religiosi e sociali per favorire la rinascita dello zaidismo, ha iniziato presto a muovere rivendicazioni di natura politica ed economica a vantaggio del Nord del Paese, scontrandosi nelle cosiddette “Sei guerre di Sa’da” fra il 2004 e il 2010 contro il governo centrale. Le Primavere arabe hanno offerto al movimento, anche aiutato dall’Iran, un’occasione unica per cementarsi come attore di governo nel Nord e parallelamente muoversi militarmente a Sud, occupando la capitale Sanaa. Oggi gli Houthi stanno perseguendo una strategia bifronte, cercando da un lato di affermarsi come unica autorità statale e dall’altro di capitalizzare il sentimento antioccidentale, al fine anche di nascondere un declino nel supporto da parte del popolo yemenita.
Quali sofferenze hanno subito i civili yemeniti a causa della guerra civile? E quali rischi corrono con questa nuova grave crisi?
Numeri certi circa l’impatto della guerra sono difficili da trovare, ma è stimato che il conflitto abbia causato direttamente o meno circa 300mila morti, di cui molti bambini. Prima degli eventi di gennaio si stimava che oltre 21,6 milioni di persone, fra cui 4 milioni di sfollati interni, avrebbero avuto bisogno di assistenza umanitaria nel 2024. Gli attacchi anglo-americani hanno colpito alcuni snodi strategici non solo per le operazioni degli Houthi, ma anche per la distribuzione di aiuti umanitari, come gli aeroporti di Hodeidah, Taiz e Hajjah. Inoltre, si è già notato come i bombardamenti abbiano danneggiato alcune infrastrutture critiche per i trasporti, con una preoccupante ricaduta negativa sulla logistica e, a cascata, sulla sicurezza alimentare.
Le azioni militari in corso potranno aver fine? Oppure siamo destinati a una permanente e pericolosa instabilità nel Mar Rosso?
La risposta militare agli attacchi degli Houthi nello stretto di Bab el-Mandeb avrà un impatto limitato e potenzialmente controproducente sul gruppo, di fatto elevando Ansar Allah a baluardo antioccidentale nell’area. Gli Houthi sono sempre stati più bravi a reagire che a pianificare e si sono affermati con interventi a “basso costo” con alti ritorni sull’investimento iniziale. Chiarendo che le azioni nel Mar Rosso fossero una risposta alla situazione a Gaza, hanno di fatto invischiato Londra e Washington, e l’Occidente in senso più largo, nelle vicende locali, consapevoli che al momento il supporto americano a Israele è incrollabile. Una soluzione diplomatica regionale è preferibile, ma le forze dell’area, compreso l’Egitto, profondamente danneggiato a livello economico dalla riduzione dei commerci attraverso il Canale di Suez, dovrebbero esporsi, col rischio di apparire antagonisti della causa palestinese. È più lecito ipotizzare alcuni contatti informali fra gli attori del Golfo per stemperare la tensione, e auspicare una cessazione del fuoco a Gaza.
Quali iniziative sta portando avanti la Santa Sede a livello diplomatico?
La Santa Sede ha avallato in Yemen le iniziative diplomatiche condotte sotto l’egida delle Nazioni Unite, a partire dall’accordo di Hodeidah del 2019. L’obiettivo principale nel breve periodo è la dichiarazione di un cessate il fuoco. E a tal proposito, Papa Francesco aveva accolto positivamente la temporanea tregua siglata fra governo yemenita e Houthi a ottobre 2022. Restano gravi le preoccupazioni per la precaria situazione umanitaria, così come per il reclutamento sistematico di bambini-soldato e per l’uso indiscriminato delle mine antiuomo.
La diplomazia della misericordia di Papa Francesco è totalmente altra rispetto a quella coercitiva e violenta basata sulla volontà di potenza. Si potrà vedere in un prossimo futuro qualche passo indietro o avanzeremo come sonnambuli verso il peggio?
È inutile negare che oggi il multilateralismo sta attraversando uno dei momenti più difficili della propria storia. L’ordine mondiale, bipolare prima e unipolare poi, ha lasciato spazio a un sistema multipolare troppo spesso irrigidito su posizioni miopi e sorde, che minano la natura stessa dei fori multilaterali globali. Idealmente, un vero multilateralismo efficace dovrebbe fondarsi su tre pilastri: dialogo, condivisione di responsabilità, e cooperazione. Oggi scarseggiano tutti. Ma ancora prima a mancare è un senso di fiducia. Di fronte a questa assenza, gli Stati si arroccano ulteriormente sulle proprie posizioni, le uniche di cui possono fidarsi. Rianimare la diplomazia multilaterale non è semplice né scontato, ma è ancora possibile, in particolare se si ricostruisce un senso di fiducia e di destino comune su argomenti relativamente emergenti, lasciando che poi “infetti” anche i contenziosi più radicati.
(Vincenzo Rizzo)
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