La ripresa dell’inflazione ha accelerato la perdita del valore reale delle retribuzioni in Italia e aumentato il numero dei lavoratori dipendenti che percepiscono un salario annuale inferiore a quello medio italiano. Il problema ha assunto un particolare rilievo nel dibattito pubblico con la richiesta di interventi normativi e di sostegni pubblici per tutelare i salari. Per questa finalità sono state presentati dei disegni di legge che propongono interventi normativi per tutelare il valore dei salari minimi contrattuali e approvati dal Parlamento alcuni sgravi fiscali e contributivi rivolti per tutelare il valore dei salari netti e per ridurre il costo del lavoro delle imprese.
Allo stato attuale sono in corso 6 provvedimenti di questa natura, a partire dalla riduzione del prelievo fiscale sui bassi redditi e degli sgravi contributivi sui salari lordi fino a 35 mila euro, che comportano una spesa di circa 20 miliardi di euro. Una cifra analoga viene destinata alle imprese per ridurre i contributi previdenziali dei nuovi assunti e dei lavoratori dipendenti nel Mezzogiorno. La gran parte di questi provvedimenti ha una scadenza limitata, il 31 dicembre 2024, ed è stata finanziata con un aumento del deficit pubblico.
Le polemiche che alimentano il dibattito politico e le richieste di interventi per tutelare i salari hanno in comune la capacità di analizzare le conseguenze della perdita di valore dei salari reali. Ma dedicano una scarsa attenzione alle cause di un fenomeno, la bassa crescita della produttività, che è diventato una componente strutturale del nostro sistema produttivo.
Gli interventi dello Stato per sostenere il valore reale delle retribuzioni aumentando il debito pubblico rappresentano un’anomalia del sistema redistributivo. È una terapia che può trovare una spiegazione per gli effetti generati dall’impennata dell’inflazione, ma che distorce il corretto legame che deve esistere tra la generazione della ricchezza e la sua redistribuzione. Nel breve termine, il mancato rinnovo dei provvedimenti in corso comporterebbe un’ulteriore riduzione dei salari netti e un aumento del costo del lavoro per le imprese. Il prosieguo degli interventi comporta una riduzione delle risorse da destinare al fabbisogno di prestazioni sociali pensionistiche e sociosanitarie destinato ad aumentare per l’invecchiamento della popolazione. Nei prossimi 15 anni il problema risulta aggravato dalla riduzione della popolazione in età di lavoro, cioè del numero delle persone che si devono far carico del sostentamento dei fabbisogni della collettività.
Nel caso italiano, la crescita della produttività, in particolare del capitale investito e del lavoro, assume un valore più importante rispetto ad altri contesti nazionali, persino superiore a quello della crescita economica in generale. Per molti aspetti, come cercheremo di spiegare, rappresenta la condizione per avere una crescita sostenibile dell’economia.
La stagnazione della produttività media del sistema produttivo italiano trova una spiegazione nelle caratteristiche della terziarizzazione dell’economia e del mercato del lavoro. Nel corso degli anni Duemila, l’incidenza media dei comparti dei servizi nei Paesi dell’Eurozona, in particolare del terziario di mercato, sul totale del valore aggiunto, è aumentata di 5 punti (il 75% con punte nazionali superiori all’80%). Ma sono mutate anche le caratteristiche qualitative dei servizi erogati. Le tecnologie digitali hanno spostato il peso delle innovazioni dalla produzione fisica alla relazione con i fornitori e i clienti finali modificando i tempi e gli spazi territoriali delle organizzazioni del lavoro. Dalla quantità e dalla qualità delle risorse umane che sviluppano e utilizzano le tecnologie dipende la crescita della produttività dell’intero sistema produttivo. All’espansione dei servizi di mercato, e al miglioramento della qualità, hanno concorso le politiche pubbliche con l’implementazione delle infrastrutture digitali disponibili, l’adeguamento dell’offerta formativa e delle politiche attive del lavoro, l’impatto sul sistema produttivo generato dalla espansione dei servizi digitali offerti dalla Pubblica amministrazione (fisco, sanità, assistenza, istruzione, mobilità).
Nelle comparazioni effettuate dall’Eurostat riscontriamo i numeri del ritardo italiano: il tasso di crescita del valore aggiunto nel complesso dei comparti del terziario tra il 2000 e il 2019 risulta dimezzato rispetto a quello dell’Eurozona (+0,7% anno rispetto a+1,8%). Secondo alcuni studi (Pellegrino – Zingales; Osservatorio Manageritalia), questo ritardo è la conseguenza dei mancati progressi delle strutture organizzative, gestionali e manageriali e della sostanziale assenza del contributo degli asset immateriali (i software, le banche dati, le telecomunicazioni) che hanno penalizzato la crescita della produttività totale dei fattori (capitale e lavoro) con effetti negativi sul sottodimensionamento delle imprese, e sulla quantità/qualità delle risorse umane utilizzate.
Per più della metà dei comparti del terziario la produttività del lavoro media annua è risultata negativa, con scostamenti rilevanti nei servizi di amministrazione, nelle attività professionali e tecniche, nei servizi di comunicazione e d’intrattenimento. Le mancate riforme del welfare e della Pubblica amministrazione hanno comportato riflessi negativi sull’implementazione delle infrastrutture e per l’utilizzo di quelle digitali. Il blocco del turnover della Pubblica amministrazione e la bassa qualità della terziarizzazione dell’economia hanno concorso alla riduzione della domanda di lavoratori qualificati. Le mancate riforme del welfare hanno penalizzato lo sviluppo di settori, in particolare la sanità, i servizi socioassistenziali e l’istruzione-formazione, che negli altri Paesi hanno svolto un ruolo fondamentale per l’espansione dei servizi di qualità per la popolazione e per l’occupazione.
L’analisi delle cause ci aiuta a comprendere quali potrebbero essere le terapie per invertire la tendenza prendendo atto che la disponibilità delle tecnologie digitali e delle risorse pubbliche e private risulta superiore alla capacità di utilizzo della collettività. Il margine di incremento della produttività dei comparti dei servizi, e degli effetti che ne possono derivare sul complesso delle attività produttive, viene stimato dagli esperti intorno al 50% del valore aggiunto che può essere generato nel decennio in corso. Le esperienze europee di successo indicano la strada da perseguire: il concorso di politiche economiche rivolte ad aumentare l’utilizzo delle tecnologie, la qualità delle imprese e delle risorse umane e delle riforme delle prestazioni sociali del welfare, in particolare del sistema sociosanitario e delle politiche attive del lavoro che hanno un ruolo fondamentale nella riqualificazione della domanda di prestazioni e dell’adeguamento delle competenze delle risorse umane.
L’aumento della produttività e il miglioramento delle competenze delle risorse umane dovrebbero diventare un obiettivo primario delle relazioni tra le parti sociali. Questo non sta avvenendo perché sopravvive una resistenza atavica di una parte rilevante delle organizzazioni sindacali ad assumere l’obiettivo di collegare la crescita dei salari agli incrementi della produttività, che viene interpretato come un’ulteriore occasione di sfruttamento dei lavoratori e di frattura dei legami solidarietà tra i lavoratori dipendenti, e di una quota non marginale delle rappresentanze datoriali che lo considerano un’indebita ingerenza sulle prerogative dei datori di lavoro. È un tema che non può essere liquidato con poche battute e che riprenderemo in un prossimo articolo.
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