Due giorni fa Bloomberg ha dato ai propri lettori una notizia interessante: l’Unione Europea starebbe lavorando su una valutazione formale di ciò che implicherebbe la presidenza Trump e starebbe già pianificando come rispondere a “misure commerciali punitive” che colpirebbero l’Europa in caso di vittoria del predecessore di Biden. L’attuale presidente ha uno degli indici di gradimento più bassi che un inquilino della Casa Bianca abbia mai avuto e la principale sfidante di Trump per la nomination repubblicana, Nikki Haley, non ha dimostrato finora particolari successi. Dunque a meno di dieci mesi dalle elezioni è normale che l’UE cominci a fare i conti economici con un politico che ha evocato l’uscita dalla NATO dagli Stati Uniti.
L’Amministrazione Trump e le sue politiche sono state prima troncate dall’esplosione del Covid, che ne ha stravolto le priorità e poi dalla sconfitta del 2020. La presidenza Trump è durata, al netto della pandemia, tre anni. L’esigenza di riequilibrare il deficit commerciale è stata da subito la priorità assoluta del politico repubblicano; “trade wars are good and easy to win”, le guerre commerciali sono buone e facili da vincere, spiegava Trump a più riprese per calmare le preoccupazioni. Il surplus commerciale europeo verso gli Stati Uniti eccede i 200 miliardi di dollari. La squadra di Trump, secondo Bloomberg, starebbe valutando una serie di misure che includono un dazio del 10% sulle importazioni e ritorsioni per le tasse europee sui servizi digitali che implicitamente colpiscono i campioni tecnologici a stelle e strisce.
Il deficit commerciale è al centro della politica americana e non interessa solo la parte repubblicana. Il “Green New Deal” di Biden è stato giudicato in Europa come parte di una guerra commerciale in cui gli Stati Uniti hanno offerto incentivi fiscali generosi per convincere le imprese a trasferire la produzione sul suolo americano. Il lancio di questo piano proprio nel pieno della crisi energetica europea non è passato inosservato da questa parte dell’Atlantico. Trump sembra avere più fretta di riequilibrare i rapporti commerciali.
Rispetto al 2016, quando l’outsider repubblicano archiviava le ambizioni presidenziali di Hillary Clinton, molte cose sono cambiate. In mezzo non c’è solo il Covid, ma la guerra in Ucraina e le sanzioni europee contro la Russia. Tra le prime tre categorie di beni importati in Europa dall’America ci sono il gas e il petrolio. Per l’Europa combattere una guerra commerciale con gli Stati Uniti è molto più complicato. L’Europa, per esempio, non può colpire le importazioni di gas naturale facendo leva su quelle russe; nemmeno quelle che arrivano dal Medio Oriente sembrano più tanto sicure, perché devono passare via nave dallo stretto di Hormuz e poi dal Mar Rosso oppure circumnavigare l’Africa. Colpire i campioni tecnologici americani è complicato dal punto di vista politico e anche pratico, perché spesso hanno quote di mercato “bulgare”. Gli Stati Uniti, più in generale, hanno enormi risorse naturali che l’Europa invece non ha e non potrà mai avere.
L’Europa entra nell’anno elettorale americano nella peggiore delle condizioni possibili per sostenere una guerra commerciale. Qualsiasi tentativo europeo di girare attorno al problema svalutando l’euro avrebbe come conseguenza la ripartenza dell’inflazione. In un mondo in cui le catene di fornitura si ricompongono e si accorciano, sacrificare la moneta, per una regione che non ha risorse proprie, è un rischio.
L’Europa dovrebbe recuperare ogni possibile margine di flessibilità spegnendo i conflitti in Medio Oriente e in Europa. Non sembra però questa la prospettiva che emerge, per esempio, dal recente viaggio di Olaf Scholz negli Stati Uniti. Il politico tedesco, spiegava ieri La Tribune, avrebbe manifestato a Biden la necessità degli aiuti militari americani. La guerra continua e nel frattempo l’Europa stende i piani per contrastare la guerra commerciale di Trump.
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