Tanto clamore, poche novità, un fiume di parole incanalato in un argine durato 2 ore e 7 minuti di intervista. Il faccia a faccia che Vladimir Putin ha rilasciato a Tucker Carlson – la prima a un giornalista occidentale dall’inizio della guerra – è stata (per entrambi) un’occasione per rafforzare la propria immagine sulla scena internazionale, rispettivamente politica e mediatica.
Le due scene non si equivalgono ma viaggiano in parallelo. Il presidente russo ha potuto ribadire le sue giustificazioni per l’invasione dell’Ucraina, proprio mentre i repubblicani del Congresso stanno decidendo se approvare o meno un nuovo pacchetto di aiuti. Lo ha fatto anche con un occhio rivolto all’escalation israelo-palestinese, che esige una sua riabilitazione sulla scena internazionale se una qualche radice risolutiva la si vuole inventare. Dmitrij Peskov, portavoce di Putin ma diplomatico di fatto, ha tessuto la trama della trattativa per l’intervista stabilendo le regole del gioco e definendo con precisione gli interessi dei (molti) interlocutori in campo, palesi e occulti.
Carlson ha avuto modo di riprendersi il ruolo di “anchor” dopo il licenziamento da Fox News dello scorso anno, e di promuovere allo stesso tempo la sua nuova impresa editoriale. Un canale di informazione utile in questa stagione di elezioni decisive in molti Paesi-chiave dello scacchiere internazionale e di nuova ridefinizione dell’ordine/disordine internazionale. Ed infatti gli aspetti di comunicazione, anche controversi e contestabili, risultano prevalere sui contenuti veri e propri espressi dal presidente russo.
Senza particolari sorprese, Putin ha ribadito come la Russia fosse pronta già diciotto mesi fa a firmare la fine della guerra con l’Ucraina, se l’allora premier britannico Boris Johnson non avesse fatto saltare l’accordo. Durante i negoziati di Istanbul l’Ucraina avrebbe firmato l’intesa, prima di ritirarla su pressione dell’onnipresente e ferocemente anti-russo Johnson, per il quale “era prioritario combattere la Russia”. “È molto triste per me – ha detto Putin –, perché avremmo potuto fermare queste ostilità già da un anno e mezzo. Dov’è ora Johnson? E la guerra continua”. A Mosca si coltiva con particolare ingegno la memoria della latitanza di Johnson durante tutta l’infruttuosa stagione del cosiddetto “Formato Normandia” che avrebbe dovuto trovare una soluzione alla crisi del Donbass prima dell’esplosione del conflitto russo-ucraino per volontà di Putin.
E Putin si è così rivolto al Congresso americano (non allo “smemorato” presidente Usa) per ribadire che la guerra finirà quando cesseranno gli aiuti e la fornitura di armi made in Usa all’Ucraina” e ha potuto lanciare un messaggio distensivo ai suoi confinanti europei: “Solo in un caso invierei truppe: se la Polonia attaccasse la Russia. Non abbiamo alcun interesse in Polonia, in Lettonia o altrove. È assolutamente fuori questione”.
L’armamentario teorico e retorico di Vladimir Putin è rimasto dunque invariato anche in queste due ore e più di intervista, fatto salvo il sarcasmo sottile riservato al 46esimo presidente Usa Joe Biden: “Non mi ricordo quando è stata l’ultima volta che gli ho parlato, non posso ricordare tutto”).
E poiché le elezioni sono alle porte non solo in Russia ma anche in America, ecco che dall’alto dei suoi 24 anni di potere ininterrotto, ha voluto citare il trascorrere dei presidenti americani: “Ho avuto un ottimo rapporto con Bush. So che negli Stati Uniti veniva dipinto come una specie di ragazzo di campagna che non capiva nulla. Vi assicuro che non è così, anche se ha commesso molti errori nei confronti della Russia”. E aggiunge: “Avevo un buon rapporto anche con Trump, non è una questione di leader nelle relazioni tra Usa e Russia, è questione di mentalità”. La sintesi è presto detta: i presidenti americani passano, il presidente russo anche no.
Di notizie vere e proprie, in oltre due ore tra monologhi e lezioni di storia al compiacente intervistatore, se ne trova solo una: la possibile liberazione di Evan Gershkovich, il giornalista del Wall Street Journal arrestato a marzo con accuse di spionaggio. “È possibile trovare un accordo per il suo rilascio, non esiste alcun tabù sulla questione – ha dichiarato Putin. Siamo disposti a risolverla, ma ci sono alcuni termini che devono essere discussi attraverso canali speciali. Credo comunque che un accordo possa essere raggiunto”.
Un’intervista così non ha, evidentemente, come unica moneta di scambio la liberazione di Gershkovish. Ma il fine dello zar, a un mese poco più dalle elezioni presidenziali che gli consegneranno il potere per altri sei anni, è un altro: accreditarsi presso l’opinione pubblica interna ed esterna come unico punto di stabilità in uno scenario contrassegnato dalle incognite legate alla possibile rielezione di Trump in autunno, i problemi interni di Zelensky, che ha rimosso Valery Zaluzhny dalla carica di capo delle forze armate ucraine, e la stanchezza espressa dai sostenitori dell’Ucraina, qualche flebile mugugno interno, un conflitto mediorientale che non potrà risolversi senza il volere di Mosca.
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