In occasione della XXXII Giornata mondiale del malato, Papa Francesco ha lanciato un messaggio che giunge diretto al cuore di una società più volte accusata di individualismo. Ci ha invitato a curare il malato senza mai lasciarlo solo, perché l’esperienza dell’abbandono e della solitudine spaventa tutti ed è davvero dolorosa. Soprattutto nel tempo della fragilità, dell’incertezza e dell’insicurezza, causate dalla malattia.
Il Papa sottolinea che anziani e malati possono rimanere soli anche in Paesi che hanno risorse abbondanti, se sono dominati dalla cultura dell’individualismo, che esalta il rendimento a tutti i costi e coltiva il mito dell’efficienza, diventando indifferente e perfino spietata nei confronti delle persone più fragili. E aggiunge: “Questa logica pervade purtroppo anche certe scelte politiche, che non riescono a mettere al centro la dignità della persona umana e non sempre favoriscono strategie e risorse necessarie per garantire ad ogni essere umano il diritto fondamentale alla salute e l’accesso alle cure”. Occorre creare una vera e propria “alleanza terapeutica” tra medico, paziente e familiare, perché “l’isolamento ci fa perdere il significato dell’esistenza, ci toglie la gioia dell’amore e ci fa sperimentare un oppressivo senso di solitudine in tutti i passaggi cruciali della vita”. In altri termini il diritto alla cura, inteso come condivisione, è il più umano dei diritti.
Che la salute sia un diritto fondamentale e inviolabile lo afferma la nostra Costituzione, per questo il Servizio Sanitario Nazionale deve garantire universalità, uguaglianza ed equità. L’OMS 40 anni fa, il 30 marzo 1994, propose con la Carta dei diritti del malato un “modello sociale europeo” e nel 2002 lanciò la “Carta europea dei diritti del malato”, che stabilisce i 14 diritti che vanno garantiti a tutti i pazienti.
Diritti però che non sono affatto rispettati, come è facile verificare attraverso le frequenti proteste dei pazienti. Ed è in questo scollamento tra affermazioni di principio e attualizzazioni concrete che sta prendendo forma in modo sempre più esplico il malessere e il malcontento dei pazienti e degli stessi professionisti, al punto che entrambi si stanno spostando da un servizio pubblico, che appare inadeguato, ad un servizio privato convenzionato, che sembra garantire decisamente meglio gli stessi diritti.
Nella sanità pubblica assistiamo allo sgretolamento dei princìpi di equità e universalismo e non si capisce quante e quali siano le risorse pubbliche necessarie per garantire salute e benessere delle persone. È necessario un accordo politico che prescinda da ideologie partitiche e avvicendamenti di governi, e riconosca esplicitamente che il SSN è ancora un pilastro della nostra democrazia e una conquista sociale irrinunciabile.
Nessuno vuole rinunciare ad un SSN pubblico, equo e universalistico, ma la situazione attuale non soddisfa né chi lavora nel SSN, né chi ricorre al SSN per farsi curare. Il venir meno delle misure di prevenzione, le lunghe file d’attesa per ottenere una diagnosi corretta, i vistosi ritardi nei trattamenti chirurgici, la ridotta disponibilità di alcuni farmaci sul mercato, e la radicale insufficienza dei servizi riabilitativi fanno pensare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il SSN attualmente non è una priorità nel nostro Paese. Ogni ammalato dovrebbe potersi curare in modo adeguato in strutture pubbliche, senza essere obbligato a ricorrere a privati per le vistose carenze del primo. Ciò non accade, soprattutto per i malati cronici, e i numeri ne danno ampia conferma.
Ma per ricorrere ad una sanità privata occorrono risorse di cui la maggior parte dei cittadini non dispone, a meno che non abbia una copertura assicurativa, in questo modo i pazienti meno abbienti restano soli. Assistiamo infatti al paradosso che la sanità è finanziata dalla fiscalità generale, ma chi vuole curarsi in modo più efficace deve ricorrere ad una sorta di doppia tassazione, accessibile solo a chi ha redditi più alti. Non c’è dubbio che il SSN sia arrivato impreparato all’appuntamento con il Covid, dopo anni di de-finanziamento. Ma la lezione della pandemia non è servita. A cominciare dal personale del SSN che ha subito una drastica riduzione: le assunzioni di medici e infermieri, effettuate in emergenza Covid, sono state tutte a tempo determinato. Intanto continua la fuga all’estero del personale sanitario.
Bisogna chiedersi se la protezione della salute possa essere garantita separatamente dalla gestione dell’organizzazione sanitaria; ancora oggi si stenta a smaltire le liste d’attesa e le persone che possono si spostano nelle strutture private, convenzionate. La parziale privatizzazione del SSN non è solo lo specchio di un servizio sanitario che non funziona come sarebbe auspicabile, è anche immagine di una società che vuole risposte rapide, che vuole scegliere il medico al quale affidarsi, che cerca strutture migliori per competenza, tempistica e logistica.
La previsione di spesa sanitaria prevista dall’attuale governo è di 136.043 milioni, ovvero 4.319 milioni in più rispetto al 2022 (+3,8%). Ma non basta aumentare il finanziamento del sistema sanitario per garantire efficacia ed efficienza delle cure. Molte strutture private autorizzate ed accreditate garantiscono centinaia di prestazioni diagnostiche a prezzi appena superiori a quelli dei ticket in tempi rapidissimi. Il ruolo dei privati ospedalieri accreditati è fondamentale in un Paese che ha il più basso indice di posti letto per acuti e post-acuti d’Europa, soprattutto nel campo della riabilitazione, destinata ad aumentare nei prossimi anni.
Pertanto la lotta non va condotta contro il privato, ma contro sprechi e disuguaglianze. C’è chi sostiene che il SSN sia ormai in “codice rosso” per la coesistenza di varie “patologie”: sottofinanziamento, carenza di personale sanitario, diseguaglianze, modelli organizzativi obsoleti. Ne sono responsabili tutti i Governi che si sono succeduti negli ultimi 15 anni. È impietoso il confronto con i paesi del G7 sulla spesa pubblica: dal 2008 siamo fanalino di coda con distanze sempre più ampie e oggi ormai incolmabili. L’entità delle diseguaglianze regionali, in particolare la “frattura” Nord-Sud proprio in sanità, è di tale entità da rendere indispensabile potenziare le capacità di indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni, per ridurre diseguaglianze, iniquità e sprechi e garantire il diritto costituzionale alla tutela della salute su tutto il territorio nazionale.
Per concludere, proprio in occasione della XXXII Giornata mondiale del malato, se davvero non vogliamo lasciare solo il malato dobbiamo ripartire anche da nuove politiche della Salute, che facciano riferimento ad una rinnovata visione della Relazione di cura, con un personale altamente qualificato.
C’è una sola salute da difendere, che inizia con la centralità dell’uomo e abbraccia prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, tutte in chiave relazionale, in uno spirito di inclusione e di accoglienza che, conoscendo il valore delle risorse e la loro cronica insufficienza, non consenta sprechi di nessun tipo, a cominciare dal tempo, in generale, e dal tempo di cura in particolare. Il tempo però non può essere monetizzato, per trasformarlo esclusivamente in tempo di produzione, come vorrebbe un’ottica eccessivamente aziendalistica, lasciando soli i malati e tutti coloro che non rendono abbastanza. Il tempo della cura è il tempo della nostra umanità condivisa con gli altri, per prevenire il disagio, soprattutto psicologico, curare le nostre ferite, e riabilitare il nostro individualismo, rendendolo più capace di stare in relazione con gli altri, senza farli sentire soli.
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