I loro prodotti vengono pagati troppo poco. Ed è proprio questo uno dei motivi che hanno spinto gli agricoltori a protestare, chiedendo l’introduzione di meccanismi nazionali o europei che definiscano prezzi minimi garantiti sulla base dei costi di produzione. Il problema, spiega Gabriele Ponzano, allevatore, portavoce degli agricoltori autonomi di Alessandria e Asti, è che con il sistema attuale i prezzi li fa la grande distribuzione, mentre i produttori pagano il fatto di essere troppo frammentati per poter avere potere contrattuale con gli acquirenti. Ma così incassano troppo poco, hanno margini risibili e qualche volta non li hanno neppure: devono sottostare a decisioni prese da altri.
Come mai agli agricoltori e agli allevatori vengono riconosciuti prezzi così bassi per il loro prodotto?
Per prima cosa noi produttori siano troppo frammentati rispetto a una industria che è molto concentrata. Bisognerebbe essere in grado di bloccare il prodotto quando le nostre richieste non vengano assecondate.
Perché non ci riuscite?
Perché è un prodotto deperibile: se ho gli animali pronti nella stalla devo venderli. Altrimenti possono perdere di qualità. E la stessa cosa vale per i cereali. Il secondo motivo è che, date le ristrettezze economiche in cui siamo, non possiamo permetterci di non vendere: significherebbe non riuscire a pagare i fornitori o i mutui.
Ma come si arriva alla definizione dei prezzi?
Per grandi produzioni come quella dei cereali i prezzi sono ormai globalizzati, anche se poi ci sono differenze a livello europeo e nazionale. In tutti i capoluoghi di provincia abbiamo una Camera di commercio che deve stabilire un listino prezzi.
Ma come si procede per stilare i listini?
Di fatto si fa riferimento a quello che decidono Milano e Bologna, e Cremona per la carne (Cuneo per quella piemontese). Quando si riuniscono le commissioni stabiliscono che se Milano paga 23 euro al quintale e portare il grano da Alessandria costa 2 euro, il prezzo per chi compra ad Alessandria è di 21 euro. I prezzi si fanno così, non c’è una contrattazione fra agricoltori e industria alimentare. Le Camere di commercio non fanno altro che fare una media di quelli che vengono applicati dai grandi gruppi e dalla grande distribuzione ai consorzi e ai commercianti.
Quindi i produttori non hanno voce in capitolo?
Anche quando si fanno contratti di filiera con la grande distribuzione, con dei mulini o aziende importanti, non abbiamo potere di contrattare il prezzo. Ti dicono: “Se vuoi far parte della filiera devi sottostare a certe regole”. Per seguirle, ad esempio, sul grano danno 1,5 euro di sovrapprezzo sul listino. Ma i soldi in più non sono sufficienti: c’è chi non ci sta, oppure chi è preso per la gola e pur di lavorare prende quello che c’è anche se non basta. Per la filiera Harmony della Saiwa una delle regole è che in proporzione a quanto grano viene seminato ci sia una parte di terreno a fiori per le api. Ma il premio che viene corrisposto per questo compito praticamente rischia di venire utilizzato per adempiere agli obblighi pattuiti nel contratto di filiera. Non c’è margine.
Qual è la differenza tra quello che viene pagato e il prezzo che dovrebbe essere praticato?
Il grano oggi per dare una certa redditività all’azienda dovrebbe essere venduto a 30 euro al quintale, noi lo stiamo vendendo a 20-21 euro: non copriamo neanche le spese. Dipende dalle produzioni che si fanno, ma in media le spese non si coprono.
Facciamo l’esempio della carne. Lei come produttore a chi la vende?
Io non ho una stalla grande, il mio riferimento di mercato nella zona sono due macellerie islamiche. Mi accordo con il macellaio e riesco ad avere un certo margine perché non ho intermediari. Dico però che 40 anni fa, quando ho cominciato a fare i conti nell’azienda di mio papà, su un bovino da macello avevamo 200mila lire di margine fra costi e ricavi, oggi se va bene arriviamo a malapena a 100 euro, lo stesso prezzo di allora. Ma in quel momento con 200mila lire avevo un margine di spesa che oggi con 100 euro non ho.
Normalmente cosa succede passando dal produttore al consumatore? Come si forma il prezzo?
In Piemonte adesso ci sono delle cooperative che riescono a garantire una considerevole massa di prodotto ai supermercati. Alla grande distribuzione va assicurato un certo numero di animali alla settimana, che il singolo produttore non riesce a mettere a disposizione. Con questo sistema i produttori che utilizzano le cooperative riescono a ottenere qualcosa in più. Il problema è che se la grande distribuzione decide di fare la settimana di promozione per la carne, fa pesare quasi tutta la promozione sulle spalle degli allevatori. Pagano meno i produttori.
Ma il prezzo lo stabilisce sempre la grande distribuzione?
Diciamo che così, utilizzando le cooperative, si può contrattare un po’ di più perché si ha in mano una certa quantità di merce. Concretamente non riusciamo mai a ottenere quello che vogliamo in termini di prezzi, dobbiamo attenerci a quello che ci dice la grande distribuzione. Su un prodotto per il quale noi abbiamo il 4-5% di guadagno loro riescono ad avere il 50%.
Cosa si potrebbe fare per riconoscere ad agricoltori e allevatori un prezzo giusto?
Una proposta, che riprende un’idea già sviluppata in passato, è che a livello nazionale o europeo si garantisca un prezzo minimo di acquisto proporzionato ai nostri costi. Se il prezzo mondiale del grano è 20 euro e noi in Europa ne spendiamo 26-27 per produrlo, il prezzo minimo deve essere 30 euro. Occorre una struttura governativa o comunitaria che fissi un prezzo minimo garantito basato sui costi di produzione, in modo che la definizione del prezzo non sia in mano ai grandi gruppi, alle multinazionali, alla grande distribuzione.
Ma quanto sono vincolanti per gli operatori del settore i prezzi stabiliti dalla Camera di commercio?
Se compro del mais da un commerciante della zona per i miei vitelli mi chiede il massimo del bollettino di Milano, ora intorno ai 22,20 al quintale. Se invece avessi il mais da vendere a un commerciante di Alessandria me lo comprerebbe al prezzo provinciale, 20 euro o 19,80. Se dobbiamo comprare ci fanno il prezzo più alto se dobbiamo vendere praticano quello più basso. Ripeto: del prezzo non determiniamo niente. È solo la grande distribuzione che ha un margine notevole. Se guadagno 100 euro su un vitello che costa 2mila euro prendo il 5%, con lo stesso animale la grande distribuzione incassa 6-7mila euro. Gli utili di una grande distribuzione minimo devono viaggiare intorni ai 18-20%. Noi, invece abbiamo utili bassissimi, quando li abbiamo. I 100 euro poi io li guadagno dopo un anno e più che allevo il vitello, chi lo acquista e lo vende ai consumatori realizza un margine in 15 giorni.
I produttori, da parte loro, cosa potrebbero fare?
Potrebbero riunirsi in consorzi e cooperative, ma in Italia un piano del genere non è così facile da realizzare.
Negli ultimi tempi cosa ha inciso di più sulle vostre spese?
L’energia, il gasolio. E poi c’è stato un aumento fuori dell’ordinario del costo dei macchinari, dei pezzi di ricambio e della manutenzione. Sembrava che avessero regalato soldi a go-go per il piano 4.0, per l’innovazione tecnologica. Adesso ci sono bandi Ismea che riconoscono il 50-60% a fondo perduto per l’acquisto di trattori e macchinari 4.0. Ma un trattore di 170-180 cavalli, per la nostra zona una potenza media, cinque anni fa costava 100mila euro, adesso ne costa 180-190mila euro. Sui costi incidono anche altre voci: l’anno scorso il concime è aumentato del 130%. Rispetto a due anni fa siamo al 60-70% in più.
Hanno approfittato degli incentivi per aumentare i prezzi?
Sì, è così. Di fatto questi soldi che risultano stanziati per l’agricoltura sono stati un finanziamento all’industria e alle banche finanziarie, perché per prendere il 10% della Sabatini (che forniva agevolazioni per l’acquisto di macchinari nuovi, nda) sei obbligato a fare un finanziamento e quindi a pagare interessi a delle finanziarie.
(Paolo Rossetti)
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