Quella del premierato è una riforma “utile a mantenere una forma di governo parlamentare in un contesto diverso”, spiega Mario Esposito, ordinario di diritto costituzionale nell’Università del Salento e docente alla Luiss di Roma. Dunque l’approdo sarebbe forse meno lontano dalla Costituzione di quanto pensano i contrari alla riforma, che enfatizzano invece gli squilibri che investirebbero la nostra Carta costituzionale. Il paradosso è che il primo a giovarsene sarebbe proprio il Presidente della Repubblica, che sarebbe ricondotto in un ambito più vicino a quello originario.
In Parlamento, intanto, dopo una fase iniziale improntata al “facciamo presto”, l’orientamento della Meloni sarebbe quello di dare libero corso al dibattito, evitandone i contraccolpi, anche per evitare che abbiano ripercussioni sulla campagna elettorale per le europee.
Per Esposito occorre evitare che gli aspetti extra-testuali, i non detti, gli assunti non dichiarati, abbiano la meglio nella revisione costituzionale. Altrimenti ci troveremmo a perpetuare vecchi errori dalle lunghe conseguenze.
Professore, la riforma del premierato è stata voluta per assicurare maggiore “governabilità”. Cominciamo da qui.
Se intendiamo la cosiddetta “governabilità” come stabile durata delle compagini governative e quindi dei relativi programmi e della loro esecuzione, la riforma muove da premesse ampiamente condivise e persegue un obiettivo altrettanto condiviso.
Qualcuno ha detto che essa toccherebbe parti della Costituzione non modificabili.
È una obiezione che non mi pare fondata. Il limite dell’art. 139 Cost. è riferito alla forma di Stato – che comprende anche i principi fondamentali –, non invece alla forma di governo. D’altra parte, la stessa ormai lunga storia dei tentativi di riforma, che non sono certamente mai falliti per ragioni di inammissibilità, depone in questo senso.
A fronte della legittimazione popolare diretta del Presidente del Consiglio, avremmo una forte limitazione, o addirittura un impedimento, all’esercizio della funzione del Presidente della Repubblica?
Ecco, questo è un buon punto di osservazione per capire meglio la ratio e gli effetti del ddl governativo. È vero che il ddl non tocca le disposizioni costituzionali che disciplinano il Capo dello Stato, ma è intuibile che, in un complesso sistematico com’è la Costituzione, modificare alcuni elementi abbia determinati effetti anche su quelli non direttamente toccati.
Ci spieghi meglio questo punto, per favore.
Occorre chiedersi se e quale garanzia – di chi e di cosa – venga intaccata e in tal caso se ciò sia contrario ad uno dei principi fondamentali della Costituzione. Si noti che l’ufficio presidenziale non è collocato tra gli istituti di garanzia, che sono la Corte costituzionale e il procedimento di revisione costituzionale. La carica di Presidente della Repubblica nel testo costituzionale è posta tra Parlamento e Governo, e dunque proprio nel cuore dell’apparato politico. Pertanto risulta geneticamente legata al Parlamento in seduta comune e funzionalmente legata al Governo.
Continui.
Attenzione: a differenza di Parlamento e Governo, com’è noto, il Presidente della Repubblica ha una durata prefissata in sette anni e non può subire alcuna “revoca”. Nessun vincolo – tantomeno di responsabilità politica, art. 90 Cost. – lo obbliga a seguire gli orientamenti delle forze politiche, neppure di quelle che ne hanno determinato l’elezione a maggioranza qualificata. Quanto al legame funzionale con il Governo, basti considerare il potere di nomina del Presidente del Consiglio e dei ministri, i quali giurano nelle sue mani prima di presentarsi alle Camere per la fiducia.
Che cosa si può concludere?
Si può tranquillamente dire che l’esecutivo è sostenuto prima di tutto da fiducia presidenziale, che, in taluni frangenti, può anche superare quella parlamentare. È il caso del ricorso allo scioglimento delle Camere in quei casi di crisi che si rivelino come non risolvibili altrimenti o, si badi bene, che siano percepiti come tali dal Presidente della Repubblica. E infatti è proprio il potere di scioglimento che costituisce un punto di caduta rilevantissimo nella vicenda della revisione costituzionale di cui si discute.
Su questo si è battagliato a suon di emendamenti e il Governo Meloni ha chiuso la partita con un testo che non si sa quale futuro avrà. Per forza: è il potere di mandare tutti a casa.
Il potere di scioglimento è cruciale nelle dinamiche di rapporto tra Parlamento, Governo e Capo dello Stato. Senza dimenticare, se posso aggiungere, che il primo fiduciante di tali rapporti è il popolo. Ma c’è altro da osservare sul Presidente della Repubblica, se posso.
Prego.
Gli atti quirinalizi devono essere tutti controfirmati da un ministro proponente: ma ciò implica un rapporto di collaborazione tra organi costituzionali, e non già la riduzione della volontà presidenziale all’esercizio di un mero controllo di regolarità, e nemmeno ad una funzione di mero controllo. L’art. 88 Cost., che disciplina lo scioglimento, ha dato luogo a varie ed opposte interpretazioni, e si può sostenere che sia atto schiettamente presidenziale, regolato separatamente dagli altri e sottoposto a condizioni di legittimità che non coinvolgono il Governo. Tutto questo conferma, per dirla con Livio Paladin, il carattere sfuggevole della carica presidenziale.
Dove vuole arrivare, professore?
A spiegare bene la situazione nella quale ci troviamo, una situazione della quale potremmo non essere completamente consapevoli. Secondo le disposizioni vigenti, il Capo dello Stato è dunque titolare di ampi poteri, che si è già cercato di limitare.
In che modo?
Le ricostruzioni degli atti presidenziali in tipi diversi a seconda della spettanza del potere di determinarne il contenuto, se allo stesso capo dello Stato o al Governo, sono servite, nonostante le apparenze, a limitare le potenzialità del suo ufficio, in modo da farne un garante di quegli “accordi” tra le forze politiche in qualche modo analoghi ai patti parasociali.
Quali accordi e quali patti parasociali?
I primi sono le prassi e le convenzioni invalse nel corso del tempo. I secondi sono quelli che si stipulano tra soci. Guardi che non è un termine improprio: in questo caso sono quelli tra le forze politiche che avevano gestito la fase costituente, confluendo poi nel cosiddetto “arco costituzionale”.
Perché siamo arrivati fin qui?
Per dire che di tutto questo occorre avere chiara consapevolezza, altrimenti mal si comprende non solo il funzionamento concreto della nostra forma di governo, ma anche il senso della riforma attualmente in discussione. Siamo, ahinoi, un Paese che non ha particolare inclinazione a definire formalmente le regole essenziali del gioco.
Un esempio?
La gestione sostanzialmente extra-costituzionale dei rapporti con l’integrazione europea.
Dunque lei sta dicendo che l’attuale forma di governo parlamentare si è basata, al pari degli aspetti formali…
…anche su alcuni elementi altrettanto importanti ma extra-testuali, extra-testo costituzionale. Diciamo pure contestuali, e perciò necessariamente provvisori. Un Presidente della Repubblica caratterizzato quasi come roi dormant (re dormiente, nda), non a caso definito “reggitore dello Stato in crisi”. E un sistema partitico, che, con un sistema elettorale proporzionale, aveva una funzione quasi “comiziale”. E che fino alla crisi del ’92 ha ricondotto alla matrice popolare tutti gli organi costituzionali titolari di funzioni incidenti sull’indirizzo politico. Gli stessi scioglimenti, per lungo tempo, sono stati conformi alle direttive dei maggiori partiti politici.
Come ha inciso su tutto questo la svolta di Tangentopoli, con il crollo dei partiti della “prima Repubblica”?
Ci siamo dimenticati che crisi del sistema dei partiti non ha voluto dire soltanto “Mani pulite”, ma il venir meno di alcuni fondamentali presupposti impliciti dell’ordinamento costituzionale, attinenti alla moneta, alla liquidità, al tasso di sconto e al tasso di interesse, nonché ad altri importanti strumenti di governo dell’economia; e poi l’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti. In questo modo sono venuti meno l’oggetto della garanzia presidenziale e i soggetti direttamente beneficiari, con un conseguente squilibrio della forma di governo e della sua natura parlamentare.
Dunque un grave squilibrio. A questo punto?
A questo punto si sono innescate le diverse possibilità combinatorie del raccordo maggioranza parlamentare-Governo, da un lato, e Presidente della Repubblica, dall’altro. Negli ultimi decenni abbiamo avuto per due volte consecutive un doppio mandato presidenziale (Napolitano, Mattarella, nda) e numerosi episodi di oggettiva esondazione del Capo dello Stato sul terreno dell’indirizzo politico di maggioranza, anche mediante formazione extraparlamentare della compagine governativa – i cosiddetti governi tecnici –, realizzando ipotesi di “Governo del Presidente”.
E in caso di crisi del “Governo del Presidente”, appunto?
Niente elezioni anticipate; sono stati sostituiti con altri dello stesso genere, da Monti a Letta, dal Conte 2 al Draghi. Si è trattato di cambiamenti profondissimi rispetto al passato, con un aumento della “frazione fiduciaria” presidenziale e un indebolimento del corpo elettorale che dovrebbe invece essere la relazione fondamentale di sostegno.
Tutto questo cosa ci dovrebbe far dire?
Dovrebbe farci prendere atto che può ancora ripetersi una sorta di instaurazione di fatto – ben oltre il dettato costituzionale – di un regime semipresidenziale. In altri termini, il Presidente della Repubblica verrebbe a consolidare una posizione di direzione politica sovrapposta a quella del Presidente del Consiglio, depotenziandolo quanto alle competenze che gli attribuisce l’art. 95 Cost. e più in generale rispetto alla legittimazione maggioritaria rappresentativa-popolare del Governo.
La riforma del premierato va fatta o no?
Se si vuole riportare la forma di governo verso il soggetto collettivo titolare della sovranità – cioè il popolo, in forza dell’art. 1 Cost. –, una soluzione è proprio quella di conferire diretta legittimazione elettorale al Presidente del Consiglio dei ministri.
Come si potrebbe definire questa riforma, se questo fosse il suo compito?
Non troverei inappropriato parlare di una revisione utile a mantenere una forma di governo parlamentare in un contesto diverso, nel quale l’esecutivo nazionale è sempre più spesso chiamato a compiere scelte di particolare importanza sia a livello delle istituzioni europee, sia nelle dinamiche geopolitiche, che esigono una legittimazione democratica più forte e sicura, che si può ottenere proprio saldando sulla diretta derivazione popolare la nuova connessione tra maggioranza parlamentare e Governo.
E il Presidente della Repubblica?
Sarebbe riportato nell’ambito della funzione di promozione, garanzia e tutela dell’indirizzo politico costituzionale attraverso il prudente esercizio dei poteri che gli attribuisce la Costituzione.
(Federico Ferraù)
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