In attesa che oggi vengano diffuse le previsioni economiche invernali della Commissione europea, ieri Eurostat ha confermato che nel quarto trimestre del 2023 il Pil dell’Eurozona è rimasto stabile rispetto al trimestre precedente, quando aveva fatto registrare un calo congiunturale dello 0,1%. Lo scenario stagnante non cambia se si prende in considerazione l’intera Ue, che nell’ultimo trimestre dell’anno è cresciuta dello 0,1% dopo una discesa congiunturale nei precedenti tre mesi di uguale entità. C’è da chiedersi come andranno le cose non solo sulla base di quello che deciderà la Bce, ma anche delle ricadute del nuovo Patto di stabilità e crescita, che è stato la scorsa settimana oggetto di un accordo tra Parlamento e Consiglio europeo. Accordo su cui abbiamo chiesto un commento a Massimo D’Antoni, professore di Scienza delle finanze all’Università di Siena.
In una precedente intervista ci aveva spiegato che l’accordo raggiunto alla fine dello scorso anno in sede Ecofin sulla riforma del Patto di stabilità era riuscito a peggiorare la proposta della Commissione. Il negoziato tra Parlamento e Consiglio europeo ha migliorato qualche aspetto?
Nella riunione di dicembre del Consiglio Ue l’accordo sulla riforma delle regole era stato chiuso con l’accoglimento di alcune modifiche volute dalla Germania, che irrigidiscono i vincoli rispetto al compromesso raggiunto nella Commissione a maggio. Per rispondere compiutamente alla domanda se la nuova negoziazione con il Parlamento di Strasburgo abbia portato un miglioramento bisognerebbe disporre del testo finale, che non sono ancora riuscito a procurarmi. Basandomi su quanto riportato dalle dichiarazioni di alcuni protagonisti e sugli emendamenti depositati in Parlamento europeo, qualche piccolo miglioramento sembra esserci stato. Parliamo però ormai di aggiustamenti al margine, di rifiniture. L’impianto è sostanzialmente quello già definito.
Sembrano esserci spazi per una maggiore “flessibilità” rispetto ai parametri numerici introdotti e anche sul percorso di riduzione del debito pubblico cui i Paesi più indebitati dovranno attenersi…
Non ci sono state modifiche nei parametri quantitativi: resta invariato, ad esempio, l’obbligo per i Paesi sotto procedura per deficit eccessivo a ridurre annualmente il disavanzo di mezzo punto percentuale, come richiesto a dicembre dalla Germania. Da quel che capisco i principali cambiamenti sono affidati a piccole modifiche testuali. Ad esempio, le condizioni previste per accedere a un allungamento da 4 a 7 anni del percorso di convergenza devono essere soddisfatte non in modo rigido, bensì “di regola”. La specificazione apre un piccolo spazio alla negoziazione politica. Un’altra modifica è nel riferimento più esplicito agli obiettivi sociali accanto a quelli, già presenti, relativi alla transizione digitale e verde e al rafforzamento del comparto difesa.
Non c’è il rischio, però, che queste negoziazioni politiche, come in passato, possano essere soggette a discrezionalità?
Indubbiamente c’è questo rischio. Del resto, è l’intero impianto del Patto di stabilità a stabilire che il giudizio di Bruxelles non si limiterà alla verifica meccanica del rispetto dei vincoli di bilancio. La flessibilità è sempre in funzione delle politiche che i Governi nazionali intendono realizzare, è condizionata alla coerenza con le priorità definite a livello europeo. Per l’appunto: transizione green, transizione digitale e spesa militare, elenco al quale il Parlamento ha opportunamente aggiunto la dimensione sociale. Temo però che non sia possibile sfuggire a questa alternativa: o si adottano regole rigide e nell’ambito delle regole ciascuno Stato può agire come crede oppure, se le regole si applicano con flessibilità, necessariamente si caricano di condizionalità e il giudizio diventa discrezionale.
Sono già state indicate le date entro cui la Commissione europea fornirà le “traiettorie tecniche” di riduzione del debito (21 giugno) ed entro cui i Paesi membri dovranno inviare i loro piano pluriennali di spesa (20 settembre). Non trova singolare che siano di fatto a cavallo di due legislature europee e che a formulare le traiettorie tecniche sia una Commissione che dopo l’estate non ci sarà più?
Ecco, questo è un punto rilevante: la gestione delle nuove regole è lasciata alla nuova Commissione, espressione del Parlamento che emergerà dopo le elezioni europee. Né poteva essere altrimenti, con una Commissione in scadenza. Una modifica degli equilibri nella maggioranza che esprime la Commissione è del resto una speranza cui evidentemente si affida anche il Governo italiano. La Legge di bilancio varata a dicembre lascia capire molto bene che l’azione del Governo avrà bisogno di margini di manovra che un’applicazione rigida delle regole difficilmente consentirebbe. Sperano dunque in un nuovo corso, con un’interpretazione più flessibile dei vincoli.
Intanto l’economia europea non pare godere di buona salute. Non le sembra, tuttavia, che il tema sia un po’ trascurato dalla Commissione europea, quasi ci si accontentasse di non essere in recessione tecnica?
La regola per cui i problemi si rimandano a dopo una tornata elettorale evidentemente non vale solo per i Governi nazionali.
L’ultimo bollettino Bce diffuso la scorsa settimana evidenzia l’aumentata fragilità finanziaria delle imprese, soprattutto italiane e tedesche. I fallimenti nel secondo e terzo trimestre hanno superato i livelli pre-Covid tornando ai massimi del 2015. Tutto questo anche per effetto dell’alto livello dei tassi di interesse. Non pensa che anche la Bce stia trascurando la situazione dell’economia dell’Eurozona?
Era chiaro che il contrasto all’inflazione avrebbe comportato dei costi. Leggevo qualche giorno fa che, a fronte della caduta dei valori immobiliari in Germania, un’ovvia conseguenza dell’innalzamento dei tassi di interesse, il Cancelliere Scholz abbia fatto riferimento a “fattori psicologici”. A volte viene da credere che anche i maggiori protagonisti della politica abbiano difficoltà a comprendere i meccanismi base dell’economia. Con questo non voglio dire che l’inflazione non sia un problema per le famiglie, ma trovare un equilibrio tra i due mali, inflazione e rischio di compromettere la crescita, è per l’appunto una delle questioni fondamentali. La Bce dà sempre un po’ l’impressione di dare alla stabilità dei prezzi una rilevanza maggiore dell’occupazione e della crescita. È anche un effetto del fatto che la prima e non le seconde sono esplicitamente menzionate nella sua “mission”. È una sorta di peccato originale dell’impianto di Maastricht.
(Lorenzo Torrisi)
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