Non male i dati delle iscrizioni alle scuole superiori. Spesso ci si dimentica che in ultima analisi le tendenze le determinano le famiglie, al netto di discussioni defatiganti sui curricoli, lamenti di sindacati e docenti verso qualsivoglia innovazione e – Dio ce ne scampi – illuminazioni di opinionisti, di tutto esperti tranne che di ciò di cui parlano. È il mercato, stupido, come disse Clinton a proposito di qualcosa di cui tutti ci siamo dimenticati. Ma la frase rimane un modello retorico.
Dunque i dati nazionali e quelli lombardi. Negli anni scorsi abbiamo assistito alla lunga inesorabile montata dei licei che hanno superato il 50%. Anche in Lombardia, e fu quello l’indicatore decisivo del superamento del livello di guardia. Le regioni italiane hanno in proposito caratteristiche diverse: il Veneto è attaccato alla formazione per il lavoro in modo commovente, il Lazio alla licealità come via di accesso agli impieghi pubblici di una grande città-capitale e dello Stato, il Sud continua nel suo segregante attaccamento alla formazione generalista, causa o effetto – chi lo sa? – della sua arretratezza industrial-produttiva. Ma la Lombardia è un indicatore unico: un settore produttivo industriale davanti agli occhi, una propensione dei figli dei ceti medi a catapultarsi appena possibile all’estero (e non certo a Roma, tranne che per i settori dell’intrattenimento): la regione – nel bene e nel male – più legata all’Occidente, europeo e non solo.
Il superamento del 50% delle iscrizioni ai licei fu dunque anni fa il campanello di allarme. Ora sembra che si cominci a tornare indietro. L’istruzione tecnica resiste e quella professionale leggermente riprende, in Lombardia ed anche a livello nazionale. In questo campo, come in altri, la Lombardia dà sempre – nel bene e nel male – i segnali che con il tempo si allargheranno alla maggior parte delle altre regioni, anche se non a tutte.
Vale la pena soffermarsi sulla costante diminuzione degli iscritti al liceo classico, che attira l’attenzione dei commentatori. È il caso di ricordare che nella vicina Francia – non proprio un modello di ignoranza – il liceo “letterario” è decisamente minoritario rispetto a quelli scientifico ed economico. La situazione in Italia sarebbe più chiara se i sociologi dell’educazione smettessero di dedicare tutte le loro attenzioni a scoprire l’acqua calda, cioè che l’ESCS (status economico sociale) determina in gran parte, attraverso le più varie strade, le fortune degli allievi nei risultati scolastici. E ci dicessero per esempio qual è la composizione sociale dei licei classici.
L’impressione è che nelle grandi città sia ancora la destinazione dei figli della borghesia degli uffici (l’aristocrazia di toga, si sarebbe detto nella Francia ancien régime), mentre nelle province è già diventato il liceo delle ragazze destinate a studi umanistici di vario tipo. È un male? L’ipotesi progressista di 50 anni fa fu che la cultura assimilata dagli attuali boomers nei loro licei dovesse essere somministrata anche al popolo per ragioni di equità. I curricoli delle formazioni per il lavoro sono stati piegati fino a pochissimi anni fa in questa direzione.
Risultati? L’Italia non sembra essere diventato un Paese particolarmente acculturato in quel senso (sarebbe indelicato citare esempi recentissimi). Certo, il rispetto per la divulgazione non è mai stato il forte dell’Italia: diciamo che è mancata la rivoluzione protestante che dava come presupposto la lettura personale dei sacri testi. Il successo dello storico Alessandro Barbero si spiega così: finalmente qualcuno che ci dice cose interessanti e non scontate in modo comprensibile, e anche magari un po’ ironico, senza essere volgare. Certo, la preside che appare sui giornali per avere detto che ci vuole più filologia e chi più ne ha più ne metta non sembra avere ben colto il problema.
Con tutto il rispetto, spetta a chi lavora nel classico – se è in grado – motivare ad apprendimenti non immediatamente utili. Che poi il greco sia più difficile della matematica è tutto da dimostrare. Il problema forse sta nella capacità di dare loro un senso, ma per questo ci vuole una cultura non banale e una motivazione educativa che forse sarebbe utopistico chiedere a tutti. E sarebbe anche il caso di smettere nella esaltazione degli apprendimenti inutili come gli unici atti a forgiare menti di alto livello. Nel passato ci si sottoponeva ad apprendimenti e fatiche nell’immediato prive di senso perché garanzia di promozione sociale e di appartenenza elitaria. O ci siamo dimenticati, appunto, dei nostri licei?
Un settore formativo intellettualmente stimolante, con la giusta dose di collegamento con gli interessi intellettuali attuali, è necessario per una società avanzata e la sua importanza non sta nei numeri, ma nel suo prestigio in relazione all’apporto che sa dare alla società nel suo complesso. Apporto che il liceo classico italiano, indipendentemente dai suoi numeri, potrebbe dare in misura maggiore.
Che il liceo scientifico sia la formazione di massa del nostro tempo è poi giusto, visti gli apporti che la scienza e la tecnologia stanno dando allo sviluppo delle nostre società umane, ed è anche positivo che il liceo delle scienze applicate (lo scientifico senza latino) stia lentamente uscendo dalla fase di attesa.
Continua la marcia del liceo delle scienze umane e del liceo economico sociale. Il primo rischia di diventare il sostituto dell’istituto tecnico femminile di infausta memoria, il liceo delle fanciulle, insomma, copia di serie C del liceo classico. Quanto al secondo, vale la pena un approfondimento. Il modello era il liceo economico francese, ma il pregiudizio tutto italiano verso l’economia disumanizzante e serva del capitalismo, oltre che il curricolo pregresso, hanno dato un gran ruolo fin dall’inizio alle scienze sociali. Nel mondo anglosassone ma soprattutto americano esse hanno di fatto sostituito la storia; ed il vuoto si sente. La storia tutta évenementielle non sarebbe certo riproponibile, ma troppo spesso le scienze sociali in versione italiana sembrano un concentrato di buone intenzioni e di valori woke che spiegano il dilagare del banale politicalcorrettismo.
La resilienza, se non la ripresa, dell’istruzione tecnica e dell’istruzione professionale sono la principale buona notizia di questo gennaio 2024. Ed anche in Lombardia sembra positiva un maggiore piegatura verso i settori della industrializzazione, dopo la sbornia terziaria di finanza e marketing. Forse l’insistenza di almeno una parte della comunicazione sui posti di lavoro produttivo vuoti (in attesa dei diplomati indiani?) ha fatto il suo effetto, forse la sensazione che la festa stia finendo per l’Europa e tanto più per l’Italia si sta facendo avanti?
Risultati non esaltanti invece per il liceo del Made in Italy e per il nuovo filone della formazione per il lavoro, in abbreviato 4+2 . I discorsi sembrano però diversi. Il liceo forse è sembrato più un mélange un po’ confuso, molto connotato politicamente già dalla denominazione autarchica… legittimo, per carità, ma forse non del tutto convincente. Il 4+2 ha subìto un fuoco di sbarramento, del tutto peraltro prevedibile. Un anno in meno ed in prospettiva meno cattedre, freddezza se non sabotaggio degli insegnanti di tutto desiderosi tranne che di novità troppo improvvise, timori sugli effettivi accessi all’università. Soprattutto tempi strettissimi e si sa che la scuola, come istituzione secolare dedita alla riproduzione, con dosi limitate di innovazione, ha bisogno di lente digestioni. Come per il liceo delle scienze applicate, si vedrà alla lunga.
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