Qualcuno se la ricorda ancora sull’enorme palco del concerto Human Rights now! al vecchio stadio comunale di Torino, nell’estate del 1988. Lei, piccolina, di colore, in mezzo alle più grandi star bianche del pianeta (Bruce Springsteen, Peter Gabriel, Sting) a fatica si distingueva, da sola con la sua chitarra acustica. Quando poi tutti gli artisti dell’evento che celebrava i quarant’anni della nascita dell’organizzazione per i diritti umani, uscirono fuori per un ultimo bis, lei si scherniva, si nascondeva, si allontanò da quella baldoria che per una ragazza timida come lei era troppo.
Tutti o quasi però sapevano chi era: con uno di quei colpi inaspettati del destino il suo primo disco, intitolato con il suo nome e cognome, Tracy Chapman, era balzato in cima alle classifiche mondiali e ancor più stranamente anche in Italia.
Benché la canzone d’autore di stampo folk, tra Joni Mitchell e Bob Dylan, annoveri pochissimi autori di colore, la Chapman era riuscita chissà per quale motivo in un momento storico dominato dagli idoli di plastica di MTV, a intercettare quei desideri sempre nascosti da qualche parte nel cuore degli ascoltatori: quelli di una canzone, semplice, spoglia di artifizi, pura, melodica e soprattutto onesta.
Lei cantava di fughe in macchina da un mondo che ostacolava i suoi desideri, della necessità di cambiamenti sociali che ponessero in primo piano gli ultimi e i perdenti: “Attraverso i confini / chi oserebbe andare / sotto il ponte / sopra i binari / che separano i bianchi dai neri”. E ancora, suggeriva con delicatezza il bisogno di una autentica rivoluzione: “Mentre stanno in fila per il welfare/ a piangere alle soglie di quegli eserciti della salvezza/ perdere tempo nelle code per la disoccupazione / seduti in attesa di una promozione / non lo sai / che parlano di rivoluzione? / sembra un sussurro”.
Da circa 15 anni Tracy Chapman è sparita dalle scene: non fa più dischi né concerti, vive da qualche parte a San Francisco. A riportarla fuori dall’oblio è stato un artista bianco della scena della musica country, da sempre quella apprezzata e preferita dagli appartenenti al cosiddetto Deep State americano, quello delle province del sud degli States, dove il razzismo ancora abita a più di un secolo e mezzo dopo la fine dello schiavismo. Lo ha fatto incidendo una cover della sua Fast Car riportandola in cima alle classifiche 35 anni dopo il successo del brano originale e per di più nelle classifiche country. La sera dei Grammy Awards, poche settimane fa, il più importante evento della musica americana e mondiale, a sorpresa, Tracy Chapman è salita sul palco per duettare con Luke Combs, il cantante che ha riportato Fast Car ai vertici delle classifiche.
In una serata dominata come sempre in questi eventi dal gigantismo tipicamente americano, dagli effetti speciali, dai balletti sessualmente espliciti, dalle coreografie eccessive, i due hanno lasciato a bocca aperta il pubblico, esattamente come 35 anni fa quando la cantautrice di colore aveva sbancato le classifiche mondiali. In molti hanno anche versato delle lacrime. Oltre il set, la produzione, le immagini immaginifiche di una serata dei premi Grammy, la Chapman e Combs hanno riportato in primo piano il potere della musica e di una canzone semplice.
“Era la prima volta che Tracy e Luke si incontravano di persona, e la prima volta in molti anni che Tracy vedeva altri musicisti”, ha detto Matthew Rankin, che era stato per anni discografico della Chapman. “Il talento presente su quel palco ha creato una nuova versione unica e bellissima di questa amata canzone”.
Il manager di Combs, Chris Kappy, ha rivelato che Chapman e il suo artista hanno trascorso solo 20 minuti a chiacchierare tra loro prima di tuffarsi a capofitto nella prova della canzone. In totale, la coppia si è esercitata per sei ore prima della loro esibizione: due ore mercoledì e quattro ore giovedì.
“Tracy aveva una visione e ha chiesto a Luke cosa ne pensava. Poi hanno continuato a correre attraverso la musica”, ha detto Kappy.
Non solo, i due hanno fatto qualcosa di più. In una America lacerata da una divisione e un odio razziale sempre più dirompenti, un antagonismo e una perdita di empatia portati agli estremi livelli dall’ideologia trumpiana, vedere una donna di colore (anche omosessuale) duettare in armonia e affetto con un bianco, ha riportato di schianto in primo piano i veri valori su cui si fonda l’America: solidarietà, tolleranza, unione. Valori che l’America del 2024 sembra aver irrimediabilmente perduto. Ma la musica no, quei valori non potrà mai perderli.
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