Ieri sono state diffuse le previsioni economiche invernali e la Commissione europea ha rivisto al ribasso le stime per il Pil dell’Eurozona portandole allo 0,8% per il 2024 (rispetto al +1,2% indicato a novembre) e al +1,2% per il 2025 (dal precedente +1,6%). Le cose vanno leggermente meglio per l’Ue nel suo complesso: +0,9% nel 2024 (dal precedente +1,3%) e +1,7% nel 2025 (stima invariata rispetto a novembre). Secondo Bruxelles, l’Italia crescerà quest’anno dello 0,7% (e non più dello 0,9%) e dell’1,2% il prossimo (in linea con quanto indicato tre mesi fa). Come ci spiega l’economista Domenico Lombardi, direttore del Policy Observatory della Luiss ed ex consigliere del Fondo monetario internazionale, «nel complesso, la Commissione ha rivisto al ribasso le previsioni di crescita delle economie europee constatando la sostanziale stagnazione dell’attività economica nell’ultimo trimestre dello scorso anno e nel primo dell’anno corrente. È interessante, tuttavia, soffermarsi sulle dinamiche sottostanti piuttosto che sui singoli numeri».
Come ha detto il Commissario Gentiloni in conferenza stampa, alla fine del 2023 l’Europa ha evitato la recessione. Sembra, però, che per questo 2024 si confidi solamente nella discesa dell’inflazione per avere un po’ di spinta sull’economia grazie ai consumi. Non è un po’ poco? Non c’è il rischio di dover assistere a nuove revisioni al ribasso?
La Commissione ritiene che la sostanziale stagnazione termini nel corso di questo trimestre lasciando spazio a una ripresa trainata dai consumi, a sua volta spinti dalla riduzione dell’inflazione che accresce il potere di spesa reale delle famiglie e dalla graduale discesa dei tassi di interesse di mercato che dovrebbe stimolare gli investimenti. Tale quadro dovrebbe materializzarsi nel contesto di una stabilizzazione dei prezzi energetici, il cui calo è proseguito sino ad ora e un mercato del lavoro che si è mostrato particolarmente resiliente. A mio avviso, tuttavia, questo quadro non fa i conti con quanto sta accadendo in Germania dallo scorso anno.
La Germania sembra essere, in effetti, il “freno” principale all’economia europea. Eppure è anche il Paese che potrebbe più spendere per spingere l’economia e che più si oppone al taglio dei tassi da parte della Bce. L’Europa rischia di pagare le scelte tedesche?
L’economia tedesca si è contratta dello 0,3% lo scorso anno e per l’anno in corso viene prevista una crescita dello 0,3%. Dietro la meccanica di queste previsioni, vi è l’ipotesi di una contrazione congiunturale piuttosto che di una riconversione rispetto a un nuovo equilibrio. Non dimentichiamoci che la Germania ha subìto un doppio shock: energetico e del suo export verso la Cina, il tutto nel contesto di politiche (nazionali) fiscali e monetarie (dell’Eurozona) restrittive. Potrebbe essere necessario più tempo perché la Germania torni a crescere; i prossimi dati congiunturali ci daranno più visibilità sul problema.
Per l’Italia si prevede una crescita del Pil quest’anno dello 0,7%, inferiore quindi alle previsioni del Governo. Servirà una manovra correttiva?
La previsione dello 0,7% è inferiore a quella del Governo ma anche della Banca d’Italia che di recente indicava una crescita per l’anno in corso appena sotto l’1%. Prima di valutare l’opportunità di una manovra correttiva, però, occorre valutare lo scenario in cui l’arresto della locomotiva tedesca si estenda all’Eurozona nel suo complesso.
Si potrà forse sperare che le nuove regole del Patto di stabilità, anche a seguito dell’accordo tra Parlamento e Consiglio europeo di settimana scorsa, lascino margini per evitare una stretta fiscale?
Proprio così. Sinora l’economia italiana ha mostrato una notevole resilienza che, però, non è sostenibile. Se perdurasse la stagnazione dell’economia tedesca, sarebbe inevitabile un rallentamento dell’intera Eurozona. A quel punto si aprirebbero vari scenari, incluso l’utilizzo della flessibilità insita nel Patto di Stabilità. Non dobbiamo dimenticare che la stance delle politiche fiscali e monetarie nell’Eurozona è restrittiva.
In audizione al Parlamento europeo, ieri, Christine Lagarde ha confermato la disinflazione in corso, ma ha anche mostrato prudenza circa un taglio dei tassi. Il fatto che negli Stati Uniti, dopo l’ultimo dato sull’inflazione, non ci si attenda un taglio imminente da parte della Fed influirà anche sulle scelte della Bce?
Negli Stati Uniti, l’inflazione rilevata a gennaio conferma una lenta e progressiva discesa, anche se meno forte delle aspettative, soprattutto per quanto riguarda la componente core che è rimasta invariata rispetto a dicembre. Eppure, il confronto con la Fed sarebbe inappropriato perché le rispettive economie sono strutturalmente diverse. Anche per quanto riguarda le rispettive dinamiche congiunturali, il gap si va ampliando con l’Eurozona, in seguito al marcato deterioramento indotto dal mix restrittivo di politiche monetarie e fiscali. In tal senso, sarebbe auspicabile che la Bce non aspettasse a lungo prima di avviare il ciclo di tagli. Peraltro, occorre rilevare che, in presenza di forze disinflative come quelle che stiamo osservando, il tasso di interesse reale aumenta e, con esso, il grado di restrizione monetaria somministrato al sistema economico.
(Lorenzo Torrisi)
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