Come riferito dalle cronache dei giorni scorsi, è arrivato il via libera del Senato al mini-pacchettino Nordio, ovvero il ddl che rappresenta il primo step di ciò che dovrebbe essere una ben più ampia riforma della giustizia. Certo bisognerà ora attendere il passaggio a Montecitorio, ma non sono alle viste particolari intoppi per l’approvazione definitiva. Le novità introdotte, in realtà, sono più rilevanti dal punto di vista politico che su quello tecnico. Dopo sei mesi di scontri, discussioni, ostruzionismo, la maggioranza, sostenuta da Italia viva e Azione, porta a casa un primo risultato battendo un colpo sulla linea fortemente caratterizzante l’azione del ministro Nordio, ovvero quella del liberalismo e del garantismo giuridico, mentre, al contrario, dall’opposizione si è sostenuto che quanto approvato sia l’espressione di una cultura autoritaria e illiberale che tutela solo chi il potere lo ha già.
Non è irrilevante segnalare che all’approvazione del ddl si è inoltre associata l’approvazione dell’articolo 4 della legge di delegazione europea, che prevede il divieto di pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare; altra norma che ha sollevato dure critiche da opposizione e magistratura.
Dal punto di vista tecnico, le novità introdotte dalla maggioranza, già più volte discusse su queste pagine, come accennato, non risultano di particolare rilievo: scompare l’abuso d’ufficio e si riduce la portata di influenze illecite, limitate a condotte particolarmente gravi; si ampliano i divieti per i giornalisti di pubblicazione in materia di intercettazioni; si punta a una maggiore tutela della privacy e viene introdotto il divieto di ascolto dei colloqui tra indagato o imputato e il suo difensore. Inoltre il pubblico ministero non potrà più impugnare le sentenze di assoluzione (a meno che non si tratti di reati particolarmente gravi); sulla richiesta di custodia cautelare in carcere si dovrà pronunciare un giudice collegiale e prima della decisione l’indagato dovrà essere interrogato dal giudice, pena la nullità della misura.
Infine un ordine del giorno ha impegnato il governo ad aprire un tavolo di lavoro per modificare la legge Severino per un riordino dei reati contro la pubblica amministrazione. L’attuale formulazione del reato di abuso è stata variata più volte nel corso degli anni, senza aver mai raggiunto un esito soddisfacente in considerazione del quale estremamente bassa è la percentuale di condanne a fronte delle indagini avviate: nel 2021, a fronte di 4.745 iscrizioni nel registro degli indagati, solo 18 sono state le condanne in primo grado. La sua abrogazione avrà pertanto uno scarso impatto pratico, ma certo ne reca uno assai più rilevante dal punto di vista della politica giudiziaria. Di certo, il reato in parola è rimasto un reato a condotta evanescente, in cui il confine tra lecito e illecito è rimasto oggettivamente nebuloso e generico, prestandosi ad interpretazioni giurisprudenziali divergenti e non uniformi. Il messaggio politico di tale abrogazione è fortemente rivolto ai pubblici amministratori, che per il rischio di un’indagine avrebbero sviluppato la paura della firma. Lo scopo dell’abrogazione è evidentemente connesso alla messa a terra dei fondi del PNRR e va ricordato come Nordio abbia voluto fortissimamente quest’abrogazione contro buona parte della sua stessa maggioranza, oltre che dei magistrati e pure di Bruxelles.
Il secondo reato che il ministro ha picconato è il “traffico di influenze”, che resterà reato nei soli casi in cui la mediazione sarà finalizzata a far compiere un reato ad un pubblico ufficiale e per questo, secondo l’opposizione, si è inteso favorire la proliferazione delle lobbies illegali.
Più interessante è la scelta di reintrodurre l’inappellabilità delle sentenze di primo grado di assoluzione da parte del pm, che era stata già prevista dalla legge Pecorella e poco dopo cancellata dalla Corte costituzionale attraverso una sentenza che la dottrina aveva giudicato alquanto lacunosa. Il ragionamento che fu fatto all’epoca e che in sostanza viene riproposto adesso è che l’imputato non può essere condannato se sussiste anche il minimo dubbio che sia colpevole e pertanto è difficile che tale dubbio possa essere superato se in un grado di giudizio l’imputato è stato assolto. Tale concetto è mutuato dagli ordinamenti di cultura anglosassone e negli ultimi anni, grazie alla giurisprudenza europea, aveva trovato una parziale applicazione, prevedendosi che, in caso di assoluzione in primo grado, l’eventuale ribaltamento in appello della decisione dovesse passare attraverso una riassunzione delle principali prove testimoniali.
Francamente poco convincenti risultano i nuovi istituti del gip collegiale e dell’interrogatorio di garanzia prima delle misure di custodia cautelare in carcere. Evidente risulta il rafforzamento della tutela del cittadino, tuttavia gli effetti pratici rischiano di creare grandi impacci sul fronte delle incompatibilità, in considerazione del fatto che il giudice che applica la misura cautelare non può poi occuparsi della fase dibattimentale, cosa che nei piccoli tribunali causerà enormi difficoltà di gestione. Certo non sbaglia chi afferma che la norma denota una certa sfiducia del ministro nelle toghe italiane.
Più convincenti l’esclusione dei brogliacci dalle informative dei procuratori aventi per oggetto intercettazioni di nominativi di soggetti terzi estranei all’inchiesta, una norma a tutela del buon nome e dell’onorabilità dei cittadini estranei alle indagini, salvo che ciò sia considerato indispensabile per l’esposizione. Viene anche introdotto il divieto assoluto di intercettazioni tra avvocato e cliente; principio invero già connesso al segreto professionale, ma che la prassi ha dimostrato poter essere violato con una certa disinvoltura.
Infine, i giornalisti potranno riportare il contenuto delle ordinanze cautelari per sintesi e non integralmente e nemmeno per estratto. Il divieto di pubblicare, per intero o per estratto, i provvedimenti sulle misure cautelari in nome della presunzione di non colpevolezza può risultare una iniziativa lodevole nelle finalità; tuttavia, se ci si chiede se essa rechi un effettivo vantaggio, sorgono non pochi dubbi. Niente vieta di pubblicare infatti i contenuti di tali provvedimenti tramite un riassunto fatto dal giornalista: il “filtro” è pertanto affidato all’abilità di comprendere e riscrivere, fenomeno che non esclude notizie non solo largamente inesatte, ma persino più dannose rispetto alla diffusione dell’atto giudiziario “autentico”.
Come si diceva, la mini-riforma va vista in prospettiva di un più ampio progetto di riscrittura delle regole del processo. Bisogna chiedersi se questa riscrittura arriverà. Si sono riscaldati i motori, ora bisognerebbe iniziare a correre nella direzione di offrire ai cittadini un servizio che funzioni e che, possibilmente, riesca il più possibile a contenere gli errori e gli abusi.
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