La recente ricorrenza del primo anniversario della scomparsa di Benedetto XVI ha favorito iniziative editoriali e rievocazioni che ne hanno rimesso a fuoco la ricchezza del pensiero, intrecciata alla luminosa testimonianza di vita di un vero maestro della Chiesa del nostro tempo. Solo una faziosità partigiana può impedire di riconoscere il valore dell’eredità che Joseph Ratzinger ci ha lasciato. È un patrimonio fecondo da custodire e far ulteriormente maturare, anche se è difficile sfuggire all’impressione che l’entusiasmo degli elogi non di rado si fermi alla superficie di una stima di impronta sentimentale o solo retorica, senza scendere in profondità fino a misurarsi con i contenuti sostanziali di una riflessione spinta su sentieri coraggiosamente anticonformisti. Un altro elemento di distorsione si lega al rischio di accostarsi alla proposta intellettuale di papa Benedetto riducendola all’ossatura di una costruzione autonoma, separata dalla rete intricata dei rapporti, diffusi nel tempo e nello spazio, che ne hanno costituito il contesto di origine, con la sua trama complessa di riprese fedeli, di distanziamenti dialettici e di rielaborazioni creative.
In senso contrario, al di là dei dati che si possono ricavare dalla stessa lettura delle opere di Ratzinger, anche le sintesi biografiche che ne ripercorrono l’itinerario approdato agli esiti che tutti conosciamo chiariscono bene che la brillante modernità, unita all’ampiezza inusuale di orizzonti del teologo-pastore assurto fino al massimo grado di responsabilità del pontificato, non sono identificabili con l’esplosione di una genialità deflagrata all’improvviso, in una cornice di rarefatta solitudine. Il genio teologico più autentico non può prendere forma se non nel fiume di un’esperienza viva di dimestichezza con la fede, integralmente accolta nelle sue pretese di globalità.
E più questa esperienza è corale, ancorata all’abbraccio di una comunione condivisa, più i frutti maturi sono colmi di una sapienza in cui lo slancio inventivo della ragione non si gonfia di pretese rivoluzionarie, ma si distende nell’umile tenacia dell’amore rivolto alla propria storia, all’identità di cui ci si scopre figli, alle matrici di una cultura fatta lievitare portando a nuovi traguardi il codice genetico che vi era racchiuso.
Il senso della continuità, per altro aperta alla sperimentazione, autocritica e trasformatrice, insieme all’innesto in un terreno di robusta alimentazione di sostegno possono essere immaginati come i presupposti che hanno consentito a una personalità fuori dal comune – tale indubbiamente è stato Joseph Ratzinger ‒ di acquisire i primi strumenti essenziali, i quadri iniziali di orientamento e alcune linee maestre su cui poi sono stati innalzati i pilastri di un edificio radicalmente ripensato a partire dalle sue basi.
Lavori come quelli di Elio Guerriero e Peter Seewald lasciano intuire che per papa Benedetto questo ambito maternamente generativo è stato il cattolicesimo popolare della terra che gli diede i natali e fornì l’educazione di fondo. Lo stile di pietà incardinato nella vita delle parrocchie e delle famiglie cristiane della Baviera di tradizione rurale, modellato da una lunga parabola di sviluppo passata attraverso i conflitti della Controriforma, la fioritura del barocco e i fermenti polemici della reazione postilluminista, era l’anima ispiratrice di un cristianesimo ricondotto all’essenziale, attaccato agli impulsi del cuore, esuberante nelle sue forme di espressione fatte di gesti, di rituali, di musiche, di canti e scenografie che, dallo spazio domestico, si allargavano fino ad abbracciare lo scorrere del tempo, la fatica del lavoro quotidiano, i progetti sul proprio destino e l’ordine ideale dei beni a cui puntare.
Prima che le ideologie del progresso sociale e i miti politici dei nazionalismi e dei totalitarismi del Novecento investissero violentemente l’impianto della religione tradizionale, mettendone a nudo i ritardi rispetto all’avanzata della piena modernità, era nel solco di una devozione impastata con il ritmo delle stagioni e i bisogni più elementari della comunità dei credenti, anche se poveri di istruzione, che si tramandava, da una generazione all’altra, il tesoro prezioso di un messaggio di speranza per tutti. Le memorie autobiografiche lasciate da Joseph Ratzinger in persona contengono l’esplicita conferma di questo radicamento in un ethos chiamato a dare senso all’esistenza di ogni giorno: “l’anno liturgico dava al tempo il suo ritmo e io ho percepito questo fatto fin da bambino, anzi, proprio da bambino, con grande gioia e riconoscenza”.
L’autobiografia prosegue ricordando le messe alle prime ore del mattino che contrassegnavano il periodo dell’Avvento, “nella chiesa ancora buia, illuminata solo dalle candele”. L’“attesa gioiosa del Natale” era coronata dal presepe ingrandito di anno in anno con nuove comparse, decorato con il muschio e i ramoscelli raccolti andando nei boschi con il papà. La Quaresima portava i momenti di adorazione dell’Orto degli ulivi, organizzati ogni giovedì “con una serietà e una fede che mi toccavano profondamente”. Per tutta la Settimana santa, le finestre della chiesa parrocchiale restavano oscurate da tendaggi neri, creando un ambiente immerso, anche in pieno giorno, “in un’oscurità densa di mistero”. Ma “non appena il parroco cantava il versetto che annunciava ‘Cristo è risorto!’, le tende venivano improvvisamente calate dalle finestre e una luce radiosa irrompeva in tutto lo spazio della chiesa: era la più impressionante rappresentazione della resurrezione di Cristo che io riesco a immaginarmi”.
Per facilitare l’immedesimazione dei più volenterosi in questo clima di cristianizzazione del tempo umano la modernità aveva ormai moltiplicato i sussidi di facile accesso. Come ricorda sempre Ratzinger, “un parroco molto aperto aveva donato ai miei genitori lo Schott in occasione del loro matrimonio, nel 1920”. Da allora, “quel libro di preghiera fu (…) sempre presente nella nostra famiglia”. La consuetudine dei doni nuziali si diffuse in modo significativo nell’area austro-germanica della prima metà del Novecento, unendosi alla volontà di mettere a disposizione anche dei ragazzi libretti di preghiera, ispirati al modello del messale per i grandi, che li aiutassero ad addentrarsi nel significato dei gesti liturgici servendosi delle immagini, con semplici spiegazioni e brevi preghiere che “sintetizzavano” e rendevano comprensibile il contenuto delle celebrazioni. Cresciuto negli anni, il piccolo Joseph ricevette il suo “Schott per bambini”, che già riportava “i testi più importanti della liturgia”. In seguito ebbe “lo Schott della domenica”, in cui era inclusa l’intera liturgia dei giorni festivi. Infine “il messale quotidiano completo”.
Articolato per livelli successivi di gradualità, lo Schott vero e proprio non era altro che il messale romano, a uso dei laici e dei religiosi di modesta preparazione scolastica, stampato in genere su due colonne con i testi latini ufficiali del rituale liturgico e, a fianco, la loro traduzione in lingua tedesca. Ne aveva curato l’allestimento a fine Ottocento il monaco benedettino Anselm Schott e continuò a essere ristampato, in almeno sette versioni editoriali diverse, messe a punto dai suoi confratelli dell’arciabbazia di San Martino di Beuron, fino a ben oltre la metà del secolo scorso. Ancora in anni recenti lo si è più volte riproposto. È stato uno dei tanti piccoli semi che hanno contribuito a nutrire il ritorno alle sorgenti per un cristianesimo purificato, reso, perciò, più vivo e calamitante.
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