Abbandonate per ora le luci della ribalta, il premierato sembra essere entrato nel più discreto cono d’ombra del confronto tra i partiti. Ciò che sembra mancare del tutto, invece, è ogni minimo cenno a una riforma del processo costituzionale, cioè del giudizio di legittimità costituzionale da parte della Consulta, osserva Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale nell’Università Cattolica di Milano. Ci siamo quasi abituati, ma ci sono presidenti emeriti della Corte costituzionale che intervengono a cadenza mensile sui giornali per spiegare come si “bilanciano” i diritti. Non applicano la legge, la interpretano. “Una creatività” spiega Mangia “che si espande a discapito di Governo e Parlamento, che sono gli unici organi a legittimazione democratica”.
Professore, sul premierato il Governo era partito in quarta, ma le critiche di varia provenienza hanno fatto sì che sulla riforma adesso si temporeggi. È un bene o un male?
Guardi, che si definisca “temporeggiare” il fatto che una riforma costituzionale sia oggetto di ponderazione da parte di tutti è segno che qualcosa è cambiato nel modo in cui le riforme vengono presentate sulla stampa. Un tempo si sapeva benissimo che una riforma costituzionale, se voleva essere una cosa seria, doveva essere lasciata sedimentare. Adesso ci si stupisce che ci sia un dibattito che va al di là del mese o due.
Quando e con chi abbiamo cambiato in peggio?
Piano piano è passata l’idea che la Costituzione possa essere cambiata in quattro e quattr’otto, neanche una legge di revisione fosse un decreto legge. Certo, se si prende il Governo Monti e la riforma dell’art. 81 Cost. (pareggio di bilancio in Costituzione, nda) proposta e approvata in cinque mesi, si può definire un normale dibattito sulle riforme un temporeggiamento. Ma credo che di quel Governo ci sia molto da ricordare e poco da conservare.
Violante (Corriere della Sera, 7 febbraio 2024), per dire che il premierato è superato, ha osservato che le società conflittuali come la nostra hanno bisogno di un arbitro, ma l’arbitro non può farlo chi è a capo di una parte.
Non capisco cosa intenda. Il premier, se mai ci sarà, non sarebbe un arbitro. Dopodiché, il fatto che un arbitro, presentato o qualificatosi come tale, non possa essere e nemmeno possa dare l’impressione di essere capo di una parte, è una massima che andrebbe scolpita nella pietra. Lo si impara da piccoli sui campetti di calcio. Lo si dovrebbe ricordare quando i capelli diventano bianchi e ci si fa canuti. Ma anche qui…
Prego, ci dica.
…si sa che con l’età i ricordi sbiadiscono e ciò che si impara da giovani rischia di non essere più presente alla mente da anziani. Per questo bisogna sforzarsi di rileggersi. La scrittura aiuta la memoria. A qualunque età.
Di fronte alle soluzioni prospettate dal ddl costituzionale, lei parlava di “espedienti destinati a perdere forza di fronte al principio del libero mandato parlamentare”. Ci può spiegare meglio?
Intendevo dire che per quanto ci si sforzi di ingabbiare una maggioranza all’interno di un sistema di premi e sanzioni che incentivino o meno certi comportamenti, finché resta il libero mandato a tutelare la libertà di voto del singolo parlamentare non esiste meccanismo che possa garantire nel tempo la durata di una maggioranza. Lo si è scoperto ancora trent’anni fa quando si gettava la croce sui governi di coalizione e sulla legge elettorale proporzionale.
Cioè quando sembrava che sarebbe bastato passare dal proporzionale al maggioritario e saremmo entrati nella Seconda Repubblica?
Esattamente: si diceva che una legge maggioritaria avrebbe restituito lo scettro al Principe e che i governi sarebbero stati di legislatura. Poi si è scoperto in fretta che i Governi del maggioritario cadevano per le stesse crisi di coalizione che segnavano i tempi della Prima Repubblica.
Immagino si riferisca alla crisi del Governo Berlusconi 1, ma anche a quella del Prodi 1 nel 1998.
Certo: ne sono stati la prova migliore. Se vuole, a loro modo, erano più lucidi – e pericolosi – i 5 Stelle.
In che senso?
Perché volevano intervenire proprio sull’art. 67 imponendo penali agli eletti che fossero usciti dal gruppo parlamentare o non avessero seguito la linea del partito. Anzi, del movimento. Per fortuna questo è diventato in fretta folclore istituzionale. Se non c’è libertà del parlamentare, non c’è libertà del cittadino.
Insomma, tutto può ancora succedere, proprio in virtù del libero mandato. A dispetto di quel che si continua a sostenere, cioè che “con il premierato non esisteranno più maggioranze incerte”. Lo ha detto La Russa, presidente del Senato.
Di maggioranze incerte non ce ne sono mai all’inizio. Il problema è vedere quanto durano. Ma non riesco a credere che un politico di lungo corso come La Russa intendesse dire davvero quel che questa dichiarazione lascia intendere. Che in un sistema parlamentare le maggioranze vadano e vengano, si compongano e ricompongano è fisiologia del sistema. La stranezza è arrivata dopo, quando la saggezza politica è venuta meno e si preteso di sostituirla con l’ingegneria costituzionale. L’idea del pilota automatico viene dalla stessa cultura.
E così torniamo al ruolo della classe politica.
Sì, perché se viene meno una classe politica, viene meno anche la funzione di educazione alla politica che i partiti hanno svolto per decenni attraverso le loro scuole di politica: Camilluccia e Frattocchie, innanzi tutto. Di cui si avverte oggi un bisogno estremo. Max Weber un secolo fa che la politica è una professione che si impara. Se non educhi e selezioni politici ti ritrovi a breve senza una classe politica. E allora la libertà del parlamentare diventa uno scherzo insopportabile. È quello che è successo con l’enfasi sulla “società civile”. E il bello è che “società civile” vuol dire anche, per chi non ha letto solo giornali, sistema degli interessi privati. E cioè economici. Tant’è vero che alla politica oggi si dedica spesso e volentieri chi non vi è stato educato e proviene da altre esperienze che sono mille miglia lontane dal governo degli interessi economici. Che dovrebbe essere il primo compito della politica.
Lei sempre su queste pagine ha detto che ci vorrebbe anche una riforma del processo costituzionale. Come mai nessuno ne parla?
Nessuno ne parla perché non si può mettere troppa carne al fuoco, ma il ruolo della Corte nella forma di governo e sulla scena politica è molto cambiato negli ultimi anni. Sempre più i giornali sono pieni di uscite e interviste a doppia pagina di presidenti della Corte che spiegano sentenze urbi et orbi. In un caso clamoroso sono state anticipate le decisioni ancor prima che le relative questioni di legittimità fossero proposte. E lasciamo perdere gli esempi, più o meno recenti. Registriamo i fatti.
Da cosa dipende questa sovraesposizione mediatica?
È figlia dell’idea che le sentenze debbano “persuadere”. Lo si dice chiaro e tondo alla fine di un comunicato dell’ufficio stampa della Corte in margine ad una curiosa vicenda che per fortuna di tutti ora sembra essersi sopita.
Ma da quando una sentenza deve “persuadere”?
Questo è il punto: una sentenza deve “motivare”, non “persuadere”. E badi che non è un errore dovuto ad un ufficio stampa non versato. Basta vedersi un libro recente che parla di “Corte costituzionale nella società” per capire che il termine non è casuale.
Dove sta la differenza, ma soprattutto che cosa comporta?
Passare dal “motivare” al “persuadere” segna il passaggio da un modo di interpretare la Costituzione ad un altro, nel senso che una teoria dell’interpretazione è sempre, implicitamente, una teoria della funzione giurisdizionale. E dei suoi confini. È una teoria del rapporto fra funzione giurisdizionale e gli altri poteri dello Stato.
In breve, professore?
Chiunque capisce che un giudice che “applica” la legge è diverso da un giudice che “interpreta” la legge. Mi spiego: il giudice che interpreta “bilanciando” valori, come si dice adesso, è assai più libero e creativo di un giudice che si sente vincolato da un testo, costituzione o legge che sia. E questa creatività si espande a discapito di Governo e Parlamento, che sono gli unici organi a legittimazione democratica.
Uno squilibrio analogo a quello che lei ha denunciato a proposito del presidente della Repubblica, il cui ruolo si è indebitamente dilatato?
Esatto. Il giudice si legittima nel suo vincolo alla legge: non ad altro. Men che meno attraverso le sue interviste e le sue invocazioni a questo o a quel “valore”. Servono giudici. Non profeti del diritto.
Allora cosa legittima un giudice come la stessa Corte costituzionale?
Lo ripeto: il vincolo alla legge e, soprattutto, alle regole che ne ordinano il processo. Il problema è che ormai il processo costituzionale se lo scrive la Corte sentenza per sentenza. Così come è una ben strana prassi quella di annunciare prima la decisione a mezzo stampa, e poi di scrivere la motivazione. Questo è un errore, perché dà l’impressione – certo sbagliata – che prima si decida ai voti, e poi si vadano a cercare le motivazioni. È chiaro che una Corte così esplicitamente politica genera squilibri di ogni tipo.
Giudici della Corte e giornali: a volte sembra un binomio perfetto. O meglio, funzionale.
È quella che ho già chiamato “buona stampa”. Riscrive la Costituzione tutti i giorni nei suoi corsivi e nei talk show. Ci metta la crisi dei partiti politici e capirà perché i giudici, in carica e non più, ormai si comportino come soggetti politici tout court.
Ma chi ha assegnato alla Corte Costituzionale il compito di apparire, come ha detto Amato, “espressione e garanzia” di quelle minoranze turbate e insidiate nei loro diritti dalle destre populiste?
Credo che queste espressioni siano sbavature di qualche addetto stampa entusiasta del buon lavoro che ha svolto. Io di Amato mi ricordo i libri di molti, molti anni fa. Non le interviste su Ustica o su qualche altro dei suoi passati. Capisce che una sovraesposizione politica e mediatica di questo genere non giova alla Corte e alla funzione di stabilizzazione che dovrebbe assolvere nel sistema.
E come si attua questa funzione?
Anni fa Leopoldo Elia parlava, a proposito del giudizio sull’ammissibilità dei referendum, di un “dono avvelenato”. Riteneva che mettere la Corte ad arbitrare una contesa politica come un referendum portasse la Corte sul piano della politica e della cronaca. Dove non doveva stare. Adesso si teorizza – non solo sui giornali – l’esatto contrario. E questo genera tensioni nel sistema. Sono certo che i nuovi giudici contribuiranno a ricreare un clima di serenità. Che è proprio quello di cui si avverte la mancanza.
(Federico Ferraù)
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