Uscendo dal Tempio, dopo la sua invettiva, qualcuno glielo rinfaccia: “Se poi s’incazzano con te, però, non lamentarti, per cortesia!” A Lui, nel frattempo, di piacere ai mercanti – dei loro possibili voti al momento di scegliere se Lui è o non è simpatico – non gliene importa affatto. Tanto che, se gli venisse chiesto di confermare o meno le posizioni, non le muterebbe d’un millimetro. Il disordine – perché di un immenso scompiglio si tratta – nasce da un affare di cuore, non di rabbia, tantomeno d’invidia per i guadagni altrui. Nacque quando si accorge che hanno fatto “della casa del Padre mio un mercato”. Un mercato burlesco: si comprano, per poi squagliarli vivi, animali di ogni specie e tipo. Anche candele di ogni forma, incensi da usare come droghe per imbonirsi il Cielo. Il Tempio è diventato un mercato. E gli addetti ai lavori, se l’ultima volta al compratore fosse andata male o non come sperato, li incitano a riprovare: “Questa volta sarà diverso”. E il Tempio, da luogo di culto, è diventato un bazar legalizzato.
Quando arriva Lui – di sorpresa, senza preavviso, coi fumi in testa – è un “Apriti cielo!”: “Portate via di quei queste cose!” urla. E s’inventa un gesto d’alta cinematografia: “Fece una frusta di cordicelle, scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete, rovesciò i banchi”. Il finimondo succede, un finimondo in quattro e quattr’otto: toccategli tutto ad un venditore ma la sua mercanzia no! Quella no: venderebbe sua madre, anche l’anima al diavoletto, purché il suo bancone sia salvo. Cristo lo sa bene: è per questo che va dritto al cuore. È come un chirurgo che ti apre il petto col bisturi e ti opera senza anestesia. Agli occhi di chi gli chiede spiegazioni – “Quale segno ci mostri per fare queste cose?” – Lui appare ancora più sbruffone e istrionico di quello che appariva prima: “Distruggete questo tempio e io in tre giorni lo farò risorgere”. Ovviamente non si capiscono: quella è gente tutta materia e niente (o poco) spirito, Lui è così tanto spirito da rendere anche la materia spirituale. Neanche perde tempo per provare a spiegare, viaggiano su binari opposti: loro parlano delle pietre e dei quarant’anni di manodopera serviti per tirare su quelle quattro mura che stanno sgretolandosi. Lui, invece, parla di tutto altro tempio: del suo corpo. L’immagine di un Dio che, sgozzato e crocifisso, risorgerà dopo tre giorni per fare le boccacce alla morte e alle sue ciclopiche fandonie.
Non capiscono. Non si capiscono: non si sono mai capiti. Non possono nemmeno capirsi, gente così opposta di cuore. Soltanto i suoi discepoli – gente rinomata, tra l’altro, per non essere dei geni in fatto d’intelletto – rammentano una frase, letta da qualche parte, forse ascoltata dalla viva voce di Cristo: “Lo zelo per la tua casa mi divorerà” (cfr Gv 2,13–25). Chissà quante volte si sono chiesti cosa fosse lo zelo. Vedendolo accendersi nel Tempio, capiscono che lo zelo è un fuoco che brucia: il contrario della tiepidezza. Qualcuno forse, non sapremmo dire chi tra i Dodici, vedendo il Maestro compiere quelle cose con tanto “zelo”, avrà pur dedotto di essere, al confronto, uno da zero in condotta. Lui, invece, ha lo zelo come condotta: zelo in condotta e la schiena dritta. Qualcuno – anni dopo, lungo la salita del Calvario – glielo farà presente al Grande Condannato: “Se ti lamenti che la Croce pesa, sappi che potevi evitarti quella scenata nel tempio. La nostra débâcle economica, quel giorno, fu pesante tanto quanto. Sappilo!” Lui, mentre glielo rinfacceranno, continuerà a vivere con il suo zelo addosso, anche quando a nessuno gliene importerà: come un pendolo, come uno specchio che batte anche all’insaputa del mondo. Nessuna diminuzione di zelo. È un Uomo da zelo in condotta: “lo zelo è quanto c’è di più puro nell’amore di Dio” (San Vincenzo). Nel Tempio di pietre non riesce ma in quello di carne andrà a bersaglio: la sua anima trascinerà un’infinità di anime. L’aveva detto: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37). Pensavano fosse il solito esagerato.
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