Nella giornata del 4 marzo scorso l’oro è giunto a quotare 2.120 dollari l’oncia, arrivando così a poca distanza dal record assoluto dei 2.138/oncia stabilito 2 o 3 mesi fa, sui mercati asiatici; in questo caso la quotazione viene direttamente dal Comex di Wall Street; inoltre, in questa settimana di inizio marzo è più probabile che accada il superamento dei 2.138/oncia, piuttosto che il contrario.
Queste quotazioni impongono vigilanza, attenzione e severità di giudizio, in quanto sono quotazioni allarmanti che nel loro progredire hanno una soglia intorno ai 2.750 dollari l’oncia, che renderebbe ogni aspetto del tutto irreversibile e quindi il mondo inizierebbe a muoversi entro scenari guidati dai soli fatti esogeni, senza possibilità, soprattutto per le autorità statunitensi, di intervenire in qualche maniera preventiva. Saremmo di fronte cioè all’iniziale dinamica della fine del dollaro come valuta di riferimento per gli scambi internazionali e come valuta strategica di riserva delle banche centrali del mondo intero.
Tanto per far capire, tramite esemplificazioni delle più varie, sei si giungesse nell’intorno dei 2.750 dollari l’oncia, in maniera del tutto immediata, fior di contrattazioni pluriennali e internazionali relative a commesse e progetti verrebbero rescisse in maniera secca e subitanea, a causa della perdita di fiducia della divisa dollaro americano.
Non si creda in maniera superficiale e semplicistica che un’eventuale insorgenza di un gold standard di fatto nelle relazioni economiche internazionali sarebbe un beneficio; tutto al contrario, precipiteremmo un po’ tutti in un nuovo mondo, antico e austero, dominato da grossa riduzione degli scambi internazionali ed esplosioni di recessioni miste a inflazioni, con sullo sfondo, sempre meno improbabile, rinnovati e antichi conflitti sociali, proprio sulle strade e sulle piazze.
In parole povere, per il nostro mondo attuale l’oro è troppo scarso e prezioso perché possa assolvere al ruolo di moneta, quello, invece, a cui deve servire l’oro è fare da garanzia e assicurazione al sistema dei pagamenti internazionali; urge cioè un nuovo sistema che non abbia più a valuta di fatto unica delle relazioni economiche internazionali il dollaro a stelle e strisce. Sul percorso fallito dei diritti di prelievo del Fmi, oppure sul solco riuscito dell’Ecu europeo degli anni ’70 e ’80, creare un paniere di valute e beni che funga da moneta di riferimento internazionale.
A stima personale, io la comporrei in tale guisa: 23% dollaro, 21% euro, 18% yuan, 18% un insieme di franco svizzero, yen, rublo, rupia, real, rand, 12% oro e argento e il residuo 8% fondamentali progetti di miglioramento e innovazione nelle zone più povere e disagiate del pianeta, ad esempio irrigazione di grandi estensioni del Sahel. Questa struttura di valuta internazionale è del tutto ovvio che necessita di un board di gestione, a cui devono contribuire tutti a seconda del loro peso; insomma quest’immagine non fa altro che fotografare in maniera particolare la fine dell’egemonia a stelle e strisce, isolata e irresponsabile dagli altrui vincoli.
In effetti, ci troviamo in questo momento di fronte a un debito pubblico statunitense pari a circa 34.300 miliardi di dollari in continua ascensione e senza un vero schema al momento di rientro; sebbene la nazione Usa abbia una ricchezza complessiva stimabile in 135.000 miliardi di dollari, dati da immobili civili, azioni, base monetaria e oro, non è questo il meccanismo per porsi al riparo dalle continue e pericolose turbolenze economiche; un esempio per tutti: si immagina cosa possa significare se per ridurre il debito pubblico, la Casa Bianca e il Dipartimento del Tesoro mettessero all’asta la metropolitana di New York? L’immagine appena presentata non è una che delle tante di profonde dimensioni di crisi e di inopportunità, quando si arriva a dover equilibrare e ad affrontare il debito pubblico con la ricchezza della nazione. Certo, esistono anche altre vie, del tipo iper patrimoniali, consolidamento del debito, ecc., ma come si vede in maniera immediata sono tutte situazioni che illuminano scenari di profonde crisi.
Altra questione sollevata con questi innalzamenti dell’oro è quella che gli operatori di mercato anticiperebbero futuri e prossimi tagli dei tassi di interesse della Fed, e in tal modo così potrebbero liberare maggiori risorse da attività che rendono meno e indirizzarle sull’oro, che in questo momento di accentuati disordini mondiali funge da porto sicuro. L’immagine non è scorretta, è solamente imprecisa e nebbiosa, in quanto dà per scontate molte cose, la prima delle quali è lo status del dollaro. In altre parole, se nel diminuire i tassi Fed accade al contempo una forte svendita sui Treasury, ci troveremmo di fronte alla pericolosa inversione del tasso obbligazionario di mercato che supera il tasso Fed, e per tale via l’inizio della spirale tassi d’interesse e inflazione e controllo non efficace del debito pubblico; tutto questo avrebbe fortissime probabilità di accadimento data l’altezza comunque sopra il 4% dei tassi di interesse Fed, anche se dalla stessa diminuiti da qui a settembre, e ovviamente per la presenza del convitato di pietra, e cioè il mostruoso debito pubblico della nazione.
Con più chiarezza va quindi rimarcato che queste quotazioni dell’oro da sopra i 2.100 dollari l’oncia non sono altro che campanelli d’allarme e avvertimenti seri recapitati alle politiche monetarie, fiscali e internazionali condotte da Casa Bianca, Congresso e Fed. La nazione deve porsi nell’ordine di idee che è arrivato il momento di scelte coraggiose, impegnative e soprattutto impopolari: gestire il debito pubblico continuandone ad assecondarne la crescita sta divenendo una politica sempre più rischiosa e incerta.
In altri modi detto, la crescita delle quotazioni dell’oro, a mano a mano che si intensifica, pone i policy makers degli Usa all’angolo sempre di più e con sempre minori opzioni di leve e strumenti.
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