Comportamenti e iniziative “difficilmente compatibili con la logica della deviazione individuale”. Così Giovanni Melillo, procuratore nazionale Antimafia, ha definito ieri in commissione Antimafia la condotta di Pasquale Striano, il tenente della Guardia di finanza che procurava le informazioni ai giornalisti di Domani, il quotidiano di Carlo De Benedetti.
Significa che Striano non ha agito da solo e il quadro emerso tra sabato e domenica sul presunto dossieraggio ai danni di politici – soprattutto di centrodestra – e vip, ora sotto la lente della procura di Perugia, è destinato ad allargarsi, visto che lo stesso Melillo ha parlato di “mercato di informazioni riservate”. Dunque un vero e proprio sistema organizzato.
La vicenda “si dimostra di gravità inaudita” – dice al Sussidiario Ginevra Cerrina Feroni, vicepresidente del Garante per la protezione dei dati personali – perché mostra una violazione sistematica della privacy e la propensione ad un “controllo di tipo orwelliano” pericoloso per la democrazia.
Professoressa, come definirebbe quanto sta emergendo?
Pur con tutti i limiti propri dei commenti su indagini ancora in corso, quello che emerge dalle ricostruzioni giornalistiche della vicenda mi pare un abuso, grave e reiterato, di un potere investigativo esercitato, probabilmente, senza sufficienti controlli.
Qual è il reato più grave?
Non spetta certo a me, né al Garante di cui sono vicepresidente, individuare i reati eventualmente commessi. Ma, a prescindere dalla sua rilevanza penale, per come si sta delineando, la vicenda oggetto dell’inchiesta della procura di Perugia si dimostra di gravità inaudita. Ottocento accessi abusivi a banche dati di rilevanza investigativa – e dunque contenenti informazioni delicatissime –, in cinque anni, se confermati sarebbero di per sé un dato preoccupante: un’ingerenza profonda e pervasiva nella vita privata di troppe persone, qualunque ne sia lo status, non giustificata da esigenze investigative.
Siamo davanti ad un modus operandi in cui il risultato legittima la procedura: la fonte indaga, cerca, trova, se non trova insiste, passa le informazioni al giornalista, e il giornalista scrive e pubblica, e forse viene aperta un’inchiesta. Come commenta?
Non è certo questo ciò che prevede la legge, che legittima approfondimenti investigativi a fronte di operazioni sospette solo in presenza di determinati requisiti e, soprattutto, necessita di un vaglio del magistrato che, in questa vicenda, si dovrà capire come sia stato condotto.
Cosa dice la legge?
Le norme applicabili, anche sotto il profilo privacy, prevedono adempimenti preventivi e successivi rispetto agli accessi compiuti dalla polizia giudiziaria su dati personali, il tracciamento di ogni attività compiuta sulle banche dati, controlli periodici sulle operazioni svolte che devono essere sempre proporzionate alle reali esigenze investigative; mai a strascico.
Nel caso in questione la violazione della riservatezza sembra un elemento accessorio rispetto alla raccolta di informazioni che la stampa definisce “privilegiate”. Come commenta questo aspetto?
L’effetto più deleterio di questa vicenda è proprio il rischio, che determina, di indurre assuefazione alle violazioni sistematiche della privacy. Se iniziamo a considerarle normali, alla stregua del prezzo da pagare per un controllo orwelliano che, peraltro, nessuna legge impone né mai potrebbe imporre, finiamo con il rinnegare le radici della democrazia.
Non è una valutazione esagerata?
No. La logica dell’uomo di vetro, l’elogio del non avere nulla da nascondere, è stata da sempre l’imperativo dei regimi totalitari.
Il ministro Nordio ha detto al Foglio che il dossieraggio in questione – comunque lo si voglia chiamare – è parente stretto dell’abuso di intercettazioni e trojan. È d’accordo?
Sono due fenomeni diversi ma che rischiano, entrambi, di indurre una pericolosa accettazione sociale di una progressiva perdita di libertà. Le intercettazioni, così come i controlli preventivi quali quelli anti-riciclaggio, sono preziosi strumenti investigativi, ma certo non vanno utilizzati a strascico né, tantomeno, abusivamente. Il loro uso esige estremo rigore, perché toccano il cuore della democrazia.
Quale sarebbe?
L’equilibrio, mai scontato, tra libertà e controllo.
Il giornalismo?
Non deve cedere alla tentazione voyeuristica dello sguardo dal buco della serratura.
Vede un assedio metodico alla riservatezza?
Più che di assedio metodico parlerei di tentazione ricorrente. Ogni volta che si intende legittimare qualche abuso o alterare il rapporto tra libertà e controllo su cui si fonda la democrazia, in favore di istanze securitarie o slogan populisti, non si trova nulla di più facile del dire che la privacy è un inutile ostacolo o, peggio, obsoleta.
Non è facile giustificarlo.
Alcuni si appellano al fatto che vivremmo in quella che Umberto Eco chiamava società dell’esibizione. Dimenticano però che lo stesso Eco ne traeva la conclusione, opposta, della necessità di promuovere una nuova e più profonda sensibilità al riserbo, perché, scriveva, “la difesa della privatezza non è solo problema giuridico, ma morale e antropologico-culturale”.
Condivide?
Soprattutto oggi, in una società sempre più digitale, non c’è difesa della libertà che non passi per la tutela della privacy: un diritto mai tiranno, ma presupposto ineludibile di una società realmente democratica.
Secondo lei un’attività giornalistica come quella coinvolta nell’inchiesta è prerogativa della “libertà di stampa”?
La libertà di stampa – pietra angolare della democrazia, come definita dalla nostra Corte costituzionale –, non deve divenire il pretesto per legittimare o, peggio, sollecitare fughe di notizie, abusi nell’esercizio del potere investigativo o eccessi nelle indagini. Il giornalismo ha una funzione centrale in una società democratica, ma anche una corrispondente responsabilità cui non può sottrarsi semplicemente invocando il diritto di cronaca.
Per quale ragione?
Perché va sempre esercitato nel rispetto del criterio di essenzialità dell’informazione e dei limiti imposti dalla tutela della persona, tra i quali in primo luogo il diritto alla dignità e alla privacy, evitando sensazionalismi o strumentalizzazioni. Tutto questo, ovviamente, a prescindere dal caso in esame, su cui ancora la magistratura deve fare chiarezza.
A suo avviso che cosa dovrebbe fare oggi il legislatore?
Non tutto si risolve con le norme: servono la deontologia professionale, soprattutto per una funzione delicata come quella giornalistica, e i controlli sull’esercizio del potere. Nessuna norma può impedire la propria violazione, dunque a fare la differenza sono i controlli sul rispetto della legge.
Si riferisce a qualche iniziativa in particolare?
Il procuratore Melillo, assunta la direzione della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo, ha riorganizzato i sistemi di controllo sugli accessi alle banche dati in modo rigoroso, tanto da far emergere le anomalie.
Cosa può dirci invece sul tema della pubblicità degli atti d’indagine?
Il ddl governativo sul processo penale (all’esame della Camera in seconda lettura, nda) ha introdotto cautele ulteriori rispetto a quelle già vigenti rispetto alla trascrizione delle intercettazioni. Molte di queste innovazioni si conformano ai suggerimenti forniti dal Garante sul testo, a tutela in particolare dei terzi e per un più congruo bilanciamento tra i vari interessi coinvolti: esigenze investigative, privacy, diritto di difesa.
(Federico Ferraù)
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