Come per un soffio in Sardegna si vinse, per più di un soffio – mentre scriviamo, Marsilio è davanti a D’Amico con il 54,5% contro il 45,5% – in Abruzzo si perde. E stavolta le truppe erano schierate al completo, e forse questo è stato il limite. Forse è mancato in terra marsicana un terzo incomodo che sottraesse voti al centrodestra e riducesse il margine. Del resto è noto che quando si spacca in due come una mela il consenso, l’elettorato conservatore si compatta e fa fatica a dare il voto al centrosinistra. Soprattutto quando la guida non è di un moderato ma di un esponente più schierato. Detta in soldoni, vale sempre il principio che si deve candidare a capo della coalizione chi pesca più dagli altri. Stavolta è andata male ad Elly Schlein, il candidato era suo, e Conte incassa un governatore in più per lui avendo scelto una candidata, in Sardegna, che ha preso consenso anche dal campo avverso, come dimostra il voto disgiunto a suo favore.
Le forze di centro da questo risultato traggono vantaggio, politicamente la radicalizzazione porta più voti alle liste, ma una identità troppo schiacciata a sinistra non produce vittorie. Va detto che la scelta di Schlein di galvanizzare la sinistra per riportare al voto i tanti che, a suo giudizio, volevano un Pd più schierato, segna il passo. Non tanto sul tema del consenso al partito, quanto su quello della capacità di costruire una coalizione di governo. Mettersi in sintonia con la parte centrale dell’elettorato non è qualcosa che si ottiene solo aggregando tutto e tutti contro il rischio Meloni. Giorgia non è Silvio Berlusconi e la coalizione fatta solo contro qualcuno non ha appeal. Se poi il candidato, Marco D’Amico, non è attrattivo di suo, la somma delle liste non basta.
Il pareggio a queste regionali, con una regione a testa, deve essere preso come un buon risultato comunque. Non era scontata la Sardegna ed il sogno di vittoria in Abruzzo è maturato dopo quel risultato. Ad inizio anno non ci sperava nessuno. Ora è chiaro che il Governo riprende fiato e lascia l’opposizione nel suo dilemma su come strutturare una proposta credibile che vada oltre la narrazione dei difetti della maggioranza. Quale proposta fare al Paese, nelle singoli regioni e quale coalizione presentare è il tema fondamentale. Il campo largo pare perda la sua identità quando apre a Calenda e Renzi. E questo lo si vede anche dall’affluenza al voto, che è stata in calo sui cinque anni precedenti (dal 53% al 52%). Ovvero, non si porta al voto tanta gente progressista e di sinistra con la proposta politica del campo largo. Se Elly immaginava di smuovere il suo elettorato di centrosinistra in massa, i dati dicono il contrario.
Molti sono rimasti a casa proprio nel campo largo e la sfida di essere massimalisti per motivare le truppe pare non funzionare. Perciò tornano le nubi sul futuro del Pd dopo le schiarite sarde e torna a prendere importanza il risultato del 6 giugno. Se si fosse vinto in Abruzzo tutto sarebbe stato in discesa, ma la risicata vittoria sarda appare ora come un falsopiano che fa rivedere le irte salite di anni di opposizione.
Ci sarà molto da riflettere nelle prossime settimane in attesa che arrivi il momento di fare le liste per le europee e misurare il consenso del Pd e di Elly se si candiderà. Conte, dal canto suo, incassata la Todde e può tacere del risultato del suo movimento che pare non sia andato come sperato. Così come gli altri partiti della coalizione, che hanno fatto un magro compitino senza sfondare. Tutto questo riaprirà i ragionamenti dei singoli leader del campo largo, che oggi devono riflettere su come posizionarsi per uscire da una situazione che appare confusa all’elettorato al punto di non uscire di casa per votarli. Serve qualcuno che dia una svolta ed imponga la propria leadership prima sui contenuti e poi nelle urne. La vera mancanza di cui si sente più bisogno è una classe politica di campo largo. Sapere dove andare con chi.
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