Ieri è stato il 20° anniversario del più grande attacco jihadista sul suolo europeo. Madrid, stazione di Atocha. Dieci bombe su quattro treni nell’ora di punta: 192 morti, migliaia feriti. L’onda d’urto dell’esplosione raggiunse la vita pubblica creando frammentazione, divisione, polarizzazione.
L’attentato multiplo dell’11 marzo è stato un colpo di al-Qaeda nella sua seconda fase, dopo la decentralizzazione avvenuta a seguito degli attentati dell’11 settembre negli Stati Uniti. Le cellule jihadiste spagnole avevano avuto un rapporto molto stretto, prima del 2001, con i terroristi che distrussero le Torri Gemelle. Una parte di queste cellule è stata smantellata dopo l’11 settembre, mentre quelle rimaste in libertà si sono coordinate con jihadisti del Maghreb e criminali comuni per far saltare i treni.
Le prime ore dopo l’attentato, in una Madrid scioccata e silenziosa, sono state segnate dall’unità nel dolore e dalla solidarietà con le vittime. Ma l’attentato era avvenuto tre giorni prima delle elezioni nazionali. Il Governo Aznar aveva abbracciato un ingenuo atlantismo che lo aveva portato a sostenere Bush nella sua guerra contro l’Iraq.
Il Governo di destra “aveva bisogno” che i terroristi non fossero jihadisti per vincere le elezioni. Così ha sostenuto, al di là di ogni ragionevolezza e dei numerosi indizi apparsi in breve tempo, la tesi che l’attentato fosse opera dell’ETA, del terrorismo basco. La sinistra “aveva bisogno” che i terroristi fossero jihadisti e che l’attentato fosse una ritorsione causata dalla partecipazione alla guerra in Iraq. Più tardi si è saputo che era sì opera dei jihadisti, ma che l’azione era stata decisa prima dell’inizio del conflitto. Alcune ore prima dell’apertura dei seggi elettorali, il quartier generale del Pp è stato circondato da manifestanti di sinistra. I leader della destra sono stati chiamati assassini. Il Governo di Aznar non ha avuto flessibilità e capacità di evitare lo scontro.
La destra ha sostenuto a lungo che le elezioni erano state falsate. Per molto tempo la sinistra ha alimentato un “trasferimento di responsabilità”, come se i responsabili degli attentati non fossero stati i terroristi, ma il Governo Aznar a causa delle sue scelte di politica internazionale.
Da quel momento, la polarizzazione che aveva cominciato a dominare la vita pubblica con il secondo Governo Aznar (2000-2004) non è più scomparsa.
L’11 marzo ha contribuito a far vedere il percorso politico, e per estensione la vita sociale, attraverso la dialettica amico-nemico, come un conflitto quasi senza limiti. Questa mentalità concepisce la società come aggregazione di individui, di identità in lotta, di gruppi ideologici contrapposti, ognuno dei quali ha una concezione diversa di ciò che è giusto e cerca di imporlo agli altri tramite il gioco delle maggioranze. Maggioranze in alcuni casi molto esigue. Ogni nuovo Governo rappresenta, in qualche modo, un “cambio di regime”.
In questo contesto si chiede il riconoscimento di un’identità condivisa basata sui beni comuni. Seguono le esortazioni a preservare il “valore morale” dell’unità, a non rovinare “una grande storia”. Sono appelli destinati in anticipo al fallimento, se non addirittura pretesti per imporre una certa posizione. L’unità non può essere qualcosa di esterno, un’esigenza morale – spesso basata su un evento del passato – che viene proposta o pretesa da un soggetto sociale già precedentemente costituito da un certo sistema di idee o di affetti. O l’unità è generata da un bene (nella Spagna della Transizione è stata la riconciliazione) presente che modella, struttura ed è all’origine dei diversi soggetti sociali oppure sarà una parola vuota, fonte di frustrazione.
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