MINNEAPOLIS – La notte degli Oscar cerco sempre di non perderla. L’America di film, attori, registi rappresenta senza dubbio un altro mondo, ma un mondo parallelo in cui in qualche misura si rispecchia il mondo vero. E i due mondi si influenzano reciprocamente dando forma a tanti aspetti della mentalità corrente. Insomma, guardo la notte degli Oscar perché l’America è tutta come nei film e i film sono come l’America. È interessante vedere chi vince, ma è affascinante guardare e ascoltare quel che succede… Così mi sono guardato anche la 96ma edizione dell’evento, ancora una volta (la quarta) affidata a Jimmy Kimmel chiamato a dare il tono alla serata col suo pistolotto iniziale.
Com’è stato? “Annoying”, fastidioso, hanno commentato in tanti, “uneventful”, senza incidenti, innocuo direi io. Qualche presa in giro di attori presenti in platea, dai passati di droga di Robert Downey Jr. a Margot Robbie e Ryan Gosling (Barbie e Ken) che hanno già vinto le “lotteria genetica”, al fatto che la gente di spettacolo non verrà rimpiazzata dall’intelligenza artificiale, ma da personaggi più giovani ed attraenti, com’è sempre stato. E un grande applauso a tutti i lavoranti dietro le quinte del mondo dello spettacolo per essersi uniti ad attori, autori, ecc. nella lunga battaglia sindacale dello scorso anno. Applauso con tanto di inchino finale – tanto cosa costa?
Ma a proposito di gratitudine, qua e là in una serata di diffuso “buonismo”, qualche lampo di sincerità lo si è visto. Come quando Da’Vine Joy Randolph, con la sua massiccia figura curiosamente addobbata, è salita sul palco per ricevere l’Oscar come miglior attrice non protagonista (The Holdovers). Vincendo singhiozzi e lacrime ha esordito ripetendo due volte “God is so good”, Dio è cosi buono, per poi raccontarci in due parole – e sempre tra lacrime di gratitudine – del suo cammino come unica ragazza di colore alla scuola di recitazione e del percorso di scoperta di voler essere non “diversa”, ma se stessa. E tutto ciò parlando a braccio, cosa abbastanza rara sul palco del Dolby Theater dove di solito i vincitori tirano fuori quei tristissimi foglietti stropicciati che hanno preparato nella speranza della realizzazione di un sogno. Foglietti affascinanti come la lista della spesa dove da giorni hanno elencati tutti quei personaggi che si aspettano di essere citati in caso di vittoria. Elenchi senza arte né parte a cui prestano attenzione solo gli addetti ai lavori (forse).
Un lampo di dolore l’ha offerto Mstyslav Chernov, regista di 20 Days in Mariupol, premiato come miglior documentario. Chernov ha portato la guerra dell’Ucraina sul palcoscenico di Los Angeles. Brandendo l’Oscar appena ricevuto, il regista ha detto: “Vorrei non aver mai fatto questo film. Vorrei poter scambiare questo Oscar – il primo nella storia del mio Paese – con il fatto che la Russia non avesse mai attaccato l’Ucraina, non avesse mai occupato le nostre città”, ha detto trattenendo a stento le lacrime. “Non posso cambiare la storia. Non posso cambiare il passato. Ma tutti insieme – tra voi, alcune delle persone più talentuose al mondo – possiamo assicurare che la verità sia messa in chiaro e che la verità prevalga… Il cinema forma ricordi, e i ricordi formano la storia”. L’ombra della Russia è anche riapparsa nella serata attraverso una citazione di Aleksei Navalny durante la proiezione di “In Memoriam”, quella triste carrellata di personaggi dello spettacolo che se ne sono andati nello scorso anno: “L’unica cosa necessaria per il trionfo del male è che le persone buone non facciano nulla”.
Randolph e Chernov, due lampi veri in un clima di festa decisamente superficiale e di commozione per lo più fasulla, come quella di Emma Stone (vincitrice come miglior attrice protagonista con Poor Things) che dà l’impressione di non saper distinguere tra realtà e finzione neanche lei in se stessa.
Cos’altro? Beh, ogni tanto qualcuno di Oppenheimer saliva a ritirare un premio senza che nessuno offrisse qualche spunto significativo, Ryan Gogling in grande spolvero a cantare e ballare con “I’m just Ken”, Al Pacino che liquida sbrigativamente la pratica del best picture (Oppenheimer) con una frettolosa apertura della busta facendo fuori qualsiasi possibilità di suspence… Curiosamente niente politica, a parte un cenno implicito e assolutamente indolore a Trump. E poi Billie Eilish, due spanne sopra gli altri con quella “What was I made for?”, premiata con l’Oscar. Chissà se quando l’ha scritta aveva in mente solo Barbie o anche se stessa. Anche noi che ascoltiamo potremmo porci la stessa domanda. Basterebbe quello a salvare la notte degli Oscars.
God Bless America!
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