La guerra imperversa e la gente muore di fame. Ma non stiamo parlando di Gaza, bensì del Sudan, devastato dal confronto armato fra le truppe del presidente provvisorio Abdel Fattah Al Burhan e le Forze di supporto rapido di Mohamed Hamdan Dagalo (Hemetti). Il conflitto che sta segnando il Paese africano presenta drammatiche analogie con quello che si sta combattendo nella Striscia: non per niente, la direttrice generale dell’UNICEF, Catherine Russel, ha chiesto alle parti in conflitto di consentire un accesso umanitario rapido dei corridoi per raggiungere le zone finora inaccessibili, in cui poter curare soprattutto i bambini affetti da SAM, la malnutrizione acuta grave. In tutto, ci sono 3,7 milioni di bambini ai quali occorre un supporto nutrizionale urgente, ma tre su quattro vivono in 135 località che sono ritenute difficili da raggiungere.
Quello del Sudan è uno scenario apocalittico con milioni di persone che fanno fatica a trovare da mangiare, senza che ci sia un’adeguata mobilitazione internazionale per aiutarle. Per risolvere il conflitto, racconta Mussie Zerai, sacerdote eritreo che ha vissuto in Italia occupandosi di migranti e di rifugiati dell’Africa subsahariana, in particolare quelli del Corno d’Africa, non bastano le mediazioni di Paesi come l’Egitto o la Turchia, in Africa sempre più presente, che sono comunque portatori di interessi particolari. Occorrerebbe un’iniziativa dell’ONU o dell’Unione africana, di organismi, insomma, che sappiano porsi al di sopra delle parti per cercare di mettere al centro il Sudan e la sua gente. Che ora ha bisogno di pace e di cibo. Il minimo indispensabile per evitare una vera e propria catastrofe.
L’UNICEF parla del Sudan come di un Paese sull’orlo della carestia, gli appelli per aiutare la popolazione sfiancata dalla fame restano lettera morta?
Più si protrae la guerra, più la carestia si fa minacciosa. La gente non è libera di muoversi e coltivare. Anche le merci non possono essere spostate. Le persone hanno dovuto abbandonare le loro case, vivono in campi profughi, nel Ciad, in Sud Sudan, oppure nei villaggi fuori dalle grandi città, che vengono continuamente incendiati. Non c’è la possibilità di portare gli aiuti.
Una delle richieste, infatti, è di creare dei corridoi per portare aiuti alla gente che muore di fame, soprattutto bambini.
Come in tutti i conflitti, se non c’è sicurezza, le organizzazioni che consegnano gli aiuti non possono mettere in pericolo la vita dei loro operatori. E nemmeno chiedere alla gente di spostarsi da un posto all’altro per ricevere cibo o altri beni di prima necessità: si spara ovunque, esporrebbero le persone al rischio di venire colpite. È necessario creare dei corridoi umanitari per raggiungere più gente possibile. Anche il World Food Program racconta che la guerra ha creato la più grande crisi di sfollati del mondo e che rischia di diventare la più grande crisi alimentare al mondo. Ci sono 25 milioni di persone sparse tra Sudan, Sud Sudan e Ciad che non sanno se riusciranno ad avere del cibo. Il Sud Sudan ha accolto quasi 600mila persone, il Ciad 500mila e non si sa quanti sono entrati in Etiopia. Tutti attendono aiuti. E la metà sono bambini. Solo nel Darfur, ogni giorno muoiono almeno due bambini.
Qualcosa si sta muovendo dal punto di vista diplomatico: l’Egitto si è fatto avanti, con Al Sisi che ha incontrato Al Burhan e soprattutto la Turchia potrebbe giocare un ruolo nella crisi. C’è la possibilità di intavolare una trattativa seria?
Finché non interverranno, ammesso che ci siano, Paesi neutrali, non si verrà a capo di niente. L’Egitto, la Turchia, i sauditi, ognuno ha i suoi interessi. Deve intervenire qualche istituzione sopra le parti, come l’Unione africana o l’ONU. Che l’Egitto faccia un tentativo va benissimo, ma ha degli interessi da difendere, anche per la sua vicinanza al Sudan, per non parlare della gestione del Nilo, questione sempre aperta. La Turchia è un attore della regione, aveva interesse ad aprire una base militare in uno dei porti del Sudan. È presente in Somalia, in Libia: nell’area comincia a far sentire la sua influenza. Per risolvere la situazione, tuttavia, serve qualcuno libero da lacci e lacciuoli e che pensi solo al bene della gente. Che ormai è stremata. Non si può continuare così: tutti parlano di catastrofe umanitaria.
Ma l’Unione africana e l’ONU hanno la forza per poter guidare il Paese in un percorso di pace?
L’ONU può fare qualcosa se chi siede al Consiglio di sicurezza dà un mandato vero e sostanziale a Guterres o a chi per lui: se subentrano come al solito i veti incrociati, non si riesce a fare nulla. Dipende dai cinque membri del Consiglio di sicurezza. L’Unione africana non è un’entità così forte da prevalere se le potenze internazionali e regionali non lo permettono.
Siamo in una situazione di impasse?
Tutte queste potenze devono capire che ci deve essere un limite oltre il quale non si può andare. Se la gente è stremata, ridotta alla fame in questa maniera, ognuna di loro deve fare un passo indietro, mettere da parte i suoi interessi e porre al centro la pace, perché i sudanesi possano sopravvivere. Solo allora ognuno potrà negoziare i suoi affari.
Ci sono molti punti di contatto con la situazione in Palestina? È uno schema che si ripete?
Sì, con la differenza che la Palestina è alla ribalta della cronaca a tutte le ore e molti Paesi si stanno dando da fare per cercare di trovare una soluzione al conflitto. Del Sudan, invece, parlano in pochissimi: non vedono tutta questa corsa a individuare un percorso per risolvere i problemi del Paese. Così, la guerra continua e la gente muore di fame e di bombe.
I soldati di Al Burhan, intanto, avrebbero riconquistato la sede della radio e della tv nazionale. Dal punto di vista militare, il conflitto come procede?
Quando ci sono milioni di persone che muoiono di fame, a che serve conquistare la radio e la televisione? Serve alla comunicazione di chi ha preso possesso della sede. Tutto questo non porta pane alla gente, che invece non sa come sopravvivere.
(Paolo Rossetti)
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