L’avvento delle proteste di Piazza dell’Indipendenza a Kiev (Maidan) nel 2014 segnò una svolta decisiva nelle vicende ucraine, con l’emergere dominante della visione atlantista e neoconservatrice. Gli sforzi di Germania e dell’Europa occidentale di scongiurare tale esito si rivelarono vani. L’appoggio statunitense, unitamente a quello di Regno Unito, Polonia e Svezia, al movimento di opposizione armato in Ucraina, inclusa la controversa partecipazione del battaglione Azov, costrinse il presidente Viktor Janukovyč alla fuga di fronte all’intensificarsi della violenza.
Gli eventi del Maidan, comunque li si guardi, scatenarono un insieme di frizioni incontrollabili tra la Russia e l’Occidente. Victoria Nuland, figura chiave del pensiero neoconservatore e collaboratrice di Dick Cheney prima e di Barack Obama poi, ebbe un ruolo determinante nei fatti di Kiev. Le sue decisioni sulla formazione del nuovo governo ucraino e la sua nota esclamazione “Fuck the EU”, in risposta alle raccomandazioni di prudenza da parte di alcuni Stati europei fatte dall’ambasciatore americano Geoffrey Pyatt, misero a nudo senza filtri le intenzioni strategiche degli USA.
La reazione della Russia agli eventi di Kiev, ovvero l’annessione della Crimea, rappresentò, come descritto da Benjamin Abelow, l’iniziativa di un Paese colto di sorpresa, intenzionato a tutelare la propria base navale a Sebastopoli, essenziale per i suoi interessi strategici. A quel punto l’Europa rispose con l’introduzione di sanzioni contro la Russia, dando avvio a un conflitto economico con Mosca.
John Mearsheimer ha riflettuto sulle origini della strategia USA volta all’integrazione dell’Ucraina nell’orbita euroatlantica, un’ambizione resa concreta dagli eventi di Maidan e già delineata da Condoleezza Rice, nonostante le pregresse richieste di neutralità da parte dell’Ucraina sostenute dalla Russia. Con la rivoluzione di Maidan, a Washington prese il sopravvento un approccio audace destinato a rompere gli equilibri precedenti.
Mearsheimer evidenzia come vari elementi abbiano contribuito a plasmare questa strategia: la necessità della burocrazia NATO di individuare un nuovo avversario dopo lo scioglimento dell’URSS, la ricerca da parte del complesso militare-industriale americano di una minaccia più tangibile di Al Qaida per giustificare le spese militari, e l’espansionismo della NATO come occasione favorevole. A ciò vanno aggiunti i gruppi di pressione contrari alla Russia e le organizzazioni per i diritti umani, che preferivano prendere di mira Mosca anziché l’Arabia Saudita. Dal 2014, le provocazioni occidentali nei confronti della Russia si intensificarono, incitando l’élite ucraina ad adottare un atteggiamento bellicoso verso le minoranze russofone del Donbass.
Petro Poroshenko, il successore di Janukovyč alla presidenza dell’Ucraina, tenne discorsi in cui si esprimeva con toni discriminatori verso i residenti delle aree orientali, segnando l’inizio di un conflitto interno. Le regioni separatiste divennero bersaglio delle operazioni punitive da parte dell’esercito ucraino. Quel conflitto, nonostante l’indifferenza dei media occidentali e documentato dalle Nazioni Unite, contò fino al 2022 14mila vittime.
Nel 2015 venne sottoscritto il protocollo di Minsk 2, che definiva in modo più dettagliato l’accordo precedente del 2014, sotto l’egida dell’OSCE, introducendo norme per la tutela delle minoranze russofone e il riconoscimento dell’autonomia linguistica nel Donbass, con Francia e Germania come mediatori. Tuttavia, secondo quanto dichiarato da Angela Merkel e François Hollande, gli accordi di Minsk erano considerati dall’Occidente più una manovra dilatoria che un autentico impegno per la pace, consentendo così all’Ucraina di potenziarsi militarmente e di prepararsi a una difesa più robusta.
È notevole come le intuizioni precedentemente espresse da personalità come Kennan, Kissinger e Mearsheimer, che si sono poi rivelate corrette, non abbiano spinto le élites occidentali a una revisione critica delle loro azioni o al riconoscimento dei loro errori. Malgrado le obiezioni russe, l’espansione della NATO del 2004 incluse nazioni come i Paesi baltici, Slovacchia, Slovenia, Romania e Bulgaria. Putin alla conferenza di sicurezza di Monaco nel 2007 chiarì senza ambiguità la posizione russa contro l’espansionismo NATO verso Est, annunciando la fine dell’era unipolare e l’intenzione della Russia di difendere i propri interessi di sicurezza senza sottomettersi. L’allargamento della NATO è stato visto da Mosca come una minaccia diretta alla sua sicurezza nazionale, e le giustificazioni dell’Occidente, che ancora ritrae la NATO come un’alleanza puramente difensiva, apparivano deboli e insufficienti a placare le preoccupazioni russe.
L’idea che l’espansione della NATO corrisponda alle aspirazioni democratiche delle nazioni ignora la complessità e la delicatezza degli equilibri geopolitici, aumentando il rischio di destabilizzazione. Le azioni dell’Occidente, percepite come aggressive dalla Russia, ricordano l’episodio della crisi dei missili di Cuba nel 1962, una risposta diretta da parte sovietica all’installazione di missili americani in Italia e Turchia, mostrando come l’espansione militare possa essere sempre interpretata come una minaccia.
Nonostante le avvisaglie e le possibili conseguenze di una reazione russa fossero state anticipate, la politica occidentale ha continuato sulla stessa linea, evidenziando una certa arroganza nell’imporre un nuovo ordine mondiale senza valutare adeguatamente le potenziali reazioni avverse. La sottovalutazione della resistenza e della capacità di risposta della Russia rappresenta una grave mancanza di giudizio, specie tra i circoli più bellicosi, che vedevano possibile e persino auspicabile una destabilizzazione del regime di Putin.
La resistenza iniziale mostrata dai Paesi fondatori dell’UE, come Germania, Francia e Italia, si è via via affievolita, cedendo alla pressione degli Stati Uniti e dei loro alleati neoconservatori, specialmente in momenti chiave come nel 2008 e nel 2014. Le critiche all’esportazione della democrazia attraverso interventi militari, spesso non supportati da una comprensione approfondita dei contesti locali e delle dinamiche post-intervento, sono state ampiamente ignorate.
Il discorso occidentale che dipinge lo scontro come una difesa della civiltà contro le autocrazie, e l’Ucraina come avamposto del mondo libero, trascura le complessità reali e le valutazioni critiche sulla democrazia in Ucraina, così come le motivazioni storiche precise dietro l’azione russa, legate a provocazioni persistenti da parte della NATO. La narrazione semplificata serve gli interessi delle multinazionali degli armamenti e dell’energia, che vedono nei conflitti un’opportunità per proteggere i propri profitti e accedere alle risorse di altri Paesi, nel caso specifico della Russia, creando una situazione pericolosamente vicina a una guerra di attrito senza una chiara strategia a lungo termine.
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