“Sulla base di quello che ha fatto durante il suo governo, Trump merita di essere considerato uno dei più grandi presidenti conservatori che noi abbiamo mai avuto”, scriveva (la sottolineatura è sua) l’autorevole giornalista Marc Thiessen sulle colonne del Washington Post: quotidiano, com’è noto, maggioritariamente democratico ma che, a differenza della grande stampa nostrana, ha conservato qualche rispetto per la libertà di espressione. E si può essere d’accordo con Thiessen anche senza per questo continuare con la tragicommedia del duello Biden-Trump; perché molto probabilmente nessuno dei due arriverà alla presidenza. Profezia azzardata? Certo: altrimenti, che profezia sarebbe?
È famoso l’aforisma di Marx sui grandi fenomeni e personaggi storici che si presentano in scena la prima volta nei panni della tragedia e la seconda in quelli della farsa. Ma forse nelle azioni di ogni rimarchevole personalità politica quella che ha luogo è una seria mescolanza di dramma (se non tragedia) e di commedia; la quale poi, sotto i riflettori dei media, viene troppo spesso mascherata da farsa, che è quello che sta accadendo nel caso presente.
Finalmente è cominciato a emergere qualche nome di candidato autentico, come il governatore democratico della California, Gavin Newsom. E perché no? Newsom è alto (requisito indispensabile per la presidenza: nelle foto internazionali di gruppo, il presidente yankee deve fisicamente torreggiare), relativamente giovane (classe 1967), e di piacevole aspetto. Se è per questo, c’è anche un possibile (fra i tanti) candidato repubblicano, Glenn Youngkin, governatore della Virginia: stessa generazione, alto e aitante.
La politica è il destino, in qualche misura inevitabilmente distruttivo (si potrebbe perfino dire: sacrificale), delle personalità che escono dalla massa. Ed ecco il dramma che si svolge sotto i nostri occhi, in attesa di trovare un vero scrittore (non un propagandista) che lo componga, e magari raggiunga, oltre il dramma, il tono alto della tragedia. Il dramma, adesso negli USA, è che ci sono due candidati che non sembrano ancora pronti a, per così dire, storicizzare se stessi, cioè ad abbandonare la scena, con la speranza di lasciare qualcosa dietro di loro.
A essere precisi, per uno di questi due il problema non si pone nemmeno: l’ex-vicepresidente di Obama non ha mai avuto una voce veramente propria, dunque non può lasciare un retaggio, e il suo dramma (degno, come tutti i drammi umani, di rispetto) è appunto questo. Tale assenza può anche essere un vantaggio: il nuovo candidato democratico non avrà (per usare una nota categoria letteraria che, come quasi tutti i concetti importanti in letteratura, ha una rilevanza anche politica) “l’ansia del precursore”. E il suo sarà, dunque, un gioco più facile nel tentativo di trovare un equilibrio fra le due anime del partito democratico: quella del progressismo autoritario, e quella del progressismo più umanistico e sensibile, nella tradizione, per esempio, del quasi-centenario Jimmy Carter, il più decente fra i presidenti americani degli ultimi anni.
La grande sfida è quella in campo repubblicano; e preoccuparsi solo del possibile neocandidato democratico, dando per scontata la candidatura di Trump, significa non vedere la posta in gioco, che è il tacito patto di debolezza (insieme staranno o insieme cadranno) tra i due candidati attuali. Il problema serio, dunque, è il lascito di Trump, che è sempre stato (anche attraverso gli anni di Biden) l’uomo di punta. Trump la cui eccezionale novità, terrificante per la politica politicante, sarebbe stata probabilmente neutralizzata, una volta, in quello stile Far West di cui sono stati vittime John Kennedy, Malcolm X, Robert Kennedy, Martin Luther King. Ma adesso i tempi sono cambiati: l’homo troppo novus non si elimina più grazie a qualche “sparatore solitario”, ma con la persecuzione legale, che ha rafforzato l’immagine di Trump come vittima e resistente, ma finirà con l’azzopparlo. È questo infatti il dramma della sua sempre più necessaria rinuncia al secondo mandato (dove siete, scrittori di tragedie – come Ibsen, Camus, Arthur Miller – quando c’è bisogno di voi?).
E non si tratta di “trumpismo”, che non esiste. Trump è troppo intelligente per illudersi di lasciare dietro di sé alcun che di simile a una teoria o a una dottrina. È un intuitivo, che fra l’altro ha un’inimitabile abilità nel parlare come si mangia (ce ne eravamo dimenticati, durante gli anni sbiaditi della presidenza Obama), e nell’alternare la testardaggine con la flessibilità. Il suo successore dovrà non provarsi nemmeno, a imitare Trump (sarebbe altrettanto distruttivo che tentare di scomunicarlo e oltre tutto sarebbe impossibile, come hanno imparato a loro spese alcuni candidati alle ormai dimenticate primarie repubblicane).
Basterebbe che il candidato-ombra tenesse in mente che il talento di Trump consiste nel parlare il linguaggio del radicalismo e seguire la pratica del compromesso. Tattica che suona familiare a noi italiani, ma Trump non aveva bisogno di leggere Machiavelli, che oltre tutto gli avrebbe rovinato lo stile. Se il candidato fra le quinte, il candidato che ancora non è stato persuaso a esserlo, riuscisse in questa e alcune altre acrobazie, potrebbe vincere. Certo, non tutto è intuizione e tattica: ci sono anche quegli animaletti ribelli che sono le idee che un leader politico deve tenere a bada col guinzaglio delle ideologie. Ma delle ideologie in lotta bisognerà parlare un’altra volta.
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